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Microplastica e danni all’ambiente

I rifiuti della plastica costituiscono un indicatore delle attività antropogeniche da cui deriva una nuova nicchia ecologica che viene denominata dagli scienziati “plastisfera”.

Le sostanze polimeriche che più comunemente vengono rinvenute nei mari sono il polietilene, il polipropilene, il polietilentereftalato, polistirene e il polivinilcloruro derivanti da bottiglie, contenitori, piatti, posate, bicchieri, pellicole, reti da pesca.

Le nazioni che contribuiscono a livello mondiale a inquinare le acque degli oceani con la plastica sono Cina, Filippine, Thailandia, Indonesia e Vietnam mentre il Mediterraneo è maggiormente inquinato dalla Turchia.

Considerando che per smaltire la plastica occorrono da 100 a 1000 anni si comprende che se non si pone un argine allo sversamento in mare di queste sostanze in un tempo non troppo lungo, il mare, che per antonomasia è fonte di vita, diventerà un’enorme pattumiera.

Ciò che è ancora peggio è che i pesci, le tartarughe e le foche possono rimanere impigliati in pezzi di plastica di grosse dimensioni o ingerirli rischiando la vita.

Tuttavia le macroplastiche possono essere intrappolate dagli impianti di trattamento delle acque mentre i frammenti di dimensioni minori possono essere smaltiti da vasche di ossidazione o da fanghi di depurazione pertanto i paesi industrializzati e quindi maggiori produttori di queste sostanze ad alto impatto ambientale potrebbero limitarne o eliminarne lo sversamento.

La macroplastica presente nei mari è quindi dovuta solo all’incuria e alle ferree leggi di mercato che limitano l’adozione di tali supporti tecnologici che eviterebbero lo scempio che si sta compiendo.

L’aspetto ancora più deteriore su cui si stanno concentrando le ricerche è la presenza massiccia nei mari delle microplastiche che costituiscono oltre il 90% della plastica che si trova nel mare: miliardi di microscopici frammenti affondano nelle acque del mare, inquinando l’ambiente marino e alterando l’equilibrio dell’ecosistema.

Le microplastiche che hanno dimensioni che vanno da 4.75 mm a 0.33 mm in aggiunta alle nanoplastiche le cui dimensioni sono inferiori a 100 nm hanno molteplici fonti.

Le microplastiche si suddividono in secondarie derivanti dalla disgregazione e dall’erosione di rifiuti plastici di dimensioni maggiori e in primarie.

Queste ultime sono sicuramente le più preoccupanti in quanto mentre quelle secondarie possono essere limitate sversando in mare una minore quantità di sostanze, le microplastiche primarie derivano da un numero pressoché illimitato di prodotti di uso quotidiano che vanno dai cosmetici come eyeliner e esfolianti ai prodotti per la cura personale quali saponi, shampoo, dentifrici e creme solari, ma anche dal lavaggio di capi di abbigliamento costituiti da fibre sintetiche.

Le microplastiche, a causa delle loro piccolissime dimensioni vengono ingerite da pesci, molluschi e crostacei e da essi giungono nelle nostre tavole.

Se poi si tiene conto che nella produzione industriale delle plastiche sono aggiunte sostanze quali solventi, diluenti, stabilizzanti e plastificanti tra cui bisfenolo A, ftalati e idrocarburi policiclici aromatici l’uomo si trova nel piatto non solo la plastica ma anche tutte quelle sostanze tra cui alcune dichiaratamente tossiche e cancerogene utilizzate per la loro lavorazione che danno fenomeni di bioaccumulo con conseguente crescita esponenziale del rischio.

Tuttavia se l’uomo non sa sfruttare le scoperte scientifiche ma le rivolge a proprio danno per motivi economici, per disinformazione e stupidità non si vede il motivo per il quale gli ignari e inconsapevoli abitanti del mare ne debbano subire le conseguenze: essi infatti subiscono danni fisici spesso irreversibili che colpiscono sia animali di grosse dimensioni ma anche gli invertebrati filtratori che ne rimangono spesso soffocati.

Solo quando l’uomo inizierà ad amare sé stesso e a salvaguardare l’ambiente in cui vive investendo in ricerca questi problemi potranno essere risolti altrimenti dovrà affogare in un mare di plastica

 


Polietilentereftalato

Il polietilentereftalato (PET) è un poliestere apprezzato per la sua resistenza, leggerezza, economicità, inerzia chimica utilizzato per ottenere bottiglie di plastica, contenitori per il confezionamento di alimenti e bevande, prodotti per la cura personale e molti altri prodotti di consumo.

Viene inoltre usato per ottenere fibre sintetiche note con il nome di poliesteri e può essere rappresentato come

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pet

Il polietilentereftalato fu sintetizzato nei laboratori della DuPont  nel 1940 nell’ambito delle ricerche sulle fibre sintetiche quando iniziarono a scarseggiare le materie prime per l’ottenimento del nylon utilizzato per ottenere i paracadute nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

Il polietilentereftalato è un polimero termoplastico di policondensazione di tipo lineare che viene generalmente ottenuto a partire dall’acido 1,4-benzendicarbossilico noto come acido tereftalico e dall’1,2-etandiolo noto come glicole etilenico.

Nella reazione di condensazione tra i due reagenti contenenti ciascuno due gruppi funzionali ovvero –COOH e –OH rispettivamente, operando ad alte temperature si forma il monomero con eliminazione di acqua

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pet monomero

La reazione di esterificazione avviene in presenza di acido da cui si formano oltre al monomero anche oligomeri contenenti fino a cinque unità monomeriche.

Per ottenere il polimero si opera a basse pressioni e a una temperatura di circa 300°C e si utilizza l’ossido di antimonio (III) quale catalizzatore distillando il glicole etilenico in eccesso.  In alternativa possono essere usati sali di titanio, germanio, cobalto, manganese, magnesio o zinco; modiche quantità di catalizzatore rimangono incapsulate nella matrice polimerica.

In questo stadio il polietilentereftalato appare come un liquido viscoso che viene estruso dopo aver allontanato l’acqua per dare un materiale amorfo simile al vetro.

Per ottenere un polimero ad alto peso molecolare che possa presentare le caratteristiche richieste di rigidità, durezza e resistenza alla deformazione e al contempo flessibilità si procede a una seconda polimerizzazione condotta sul solido a temperature più basse a cui avviene la rimozione di impurezze volatili quali acetaldeide, glicoli e acqua.

La produzione di poliestere può essere effettuata sia attraverso un processo batch che in un processo continuo; nella produzione di fibre di poliestere i prodotti di un processo continuo possono essere alimentati direttamente nella testa della filatura a fusione.

Poiché è difficile purificare il polimero una volta formato è necessario partire da reagenti molto puri per avere la garanzia di ottenere una macromolecola da poter essere utilizzata a contatto con gli alimenti.

Il PET è classificato come un polimero semicristallino e, quando è riscaldato oltre 72 °C che corrisponde alla temperatura di transizione vetrosa, passa da uno stato rigido simile al vetro a una forma elastica e gommosa in cui la catena polimerica può essere allungata e allineata in una sola direzione per formare fibre o in due direzioni per formare pellicole.

Se il materiale fuso viene raffreddato rapidamente, mentre è mantenuto nello stato stirato, le catene rimangono bloccate con quel dato orientamento e, una volta orientato, il materiale si presenta estremamente duro e ha le proprietà tipiche delle bottiglie tipiche in PET

Se invece il polimero dopo lo stiramento, rimane a una temperatura sopra i 72°C, cristallizza e inizia a diventare opaco, più rigido e meno flessibile. Questa forma è nota come PET cristallino o cPET che è in grado di resistere a temperature più elevate.

Stante l’enorme consumo di prodotti realizzati in PET onde evitare un accumulo indefinito si provvede al suo riciclaggio che può essere di tipo meccanico o di tipo chimico. Quest’ultimo che presenta, tuttavia alti costi ed elevato impatto ambientale consiste nella conversione del polimero in composti a basso peso molecolare che possono essere introdotti in nuovi cicli produttivi.

Il ciclo meccanico prevede la riduzione del PET in polvere che viene utilizzata per ottenere prodotti per usi non alimentari

Chetone del lampone

Il 4-(4-idrossifenil)butan-2-one noto come chetone del lampone o rasberry chetone è un composto di tipo fenolico che conferisce al lampone il tipico aroma.

Nel lampone, diversamente da more e mirtilli in cui esso è comunque presente, costituisce la molecola il cui profumo prevale nettamente sulle altre tra cui esteri come il formiato di etile, aldeidi, chetoni e terpenoidi.

In natura il chetone del lampone si forma in una reazione complessa che avviene in più stadi a partire dalla reazione di condensazione tra 4-cumaroil-CoA e il malonil-CoA

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biosintesi

Il chetone del lampone viene utilizzato per il suo aroma inconfondibile dall’industria alimentare quale additivo, nel campo dei cosmetici e nei profumi.

Stante la sua produzione limitata in quanto da 1 Kg di lamponi si ottengono da 1 a 4 mg di composto si procede per via sintetica tramite una condensazione aldolica incrociata in ambiente basico tra la 4-idrossibenzaldeide con acetone.

Il prodotto della reazione è il 4-(4-idrossifenil)3-buten-2-one un chetone insaturo che viene sottoposto a idogenazione catalitica per dare il 4-(4-idrossifenil)butan-2-one.

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sintesi

Un altro metodo sintetico prevede un’alchilazione di Friedel-Crafts tra il fenolo e il 4-idrossiburan-2-one in presenza di catalizzatore.

Questo composto viene pubblicizzato per le sue presunte caratteristiche anti-obesità. Secondo studi effettuati sui ratti nel 2005 esso altera il metabolismo lipidico con conseguente perdita di grassi. Questa scoperta ha indotto molte case produttrici di integratori a puntare sul chetone del lampone come sostanza brucia-grassi.

E’ bene, tuttavia, sottolineare che non solo non sono stati condotti studi analoghi sugli esseri umani e quindi le caratteristiche auspicate non sono state dimostrate per l’uomo, ma che non sono stati fatti studi su eventuali effetti collaterali per elevati quantitativi di sostanza assunta per periodi lunghi.

Inoltre, per la sua somiglianza chimica con la sinefrina, alcaloide al quale sono riconosciute proprietà stimolanti, ad oggi non si può escludere che il chetone del lampone posso essere un cardiotossico e interagire con il sistema della riproduzione e dello sviluppo.

Platino

Il platino è un metallo di transizione appartenente al Gruppo 10 e al 6° Periodo con configurazione elettronica [Xe] 4f14 5d9 6s1.

ll platino unitamente al rutenio, rodio, palladio, osmio e iridio che occupano posizioni contigue nella Tavola Periodica fa parte dei metalli del gruppo del platino caratterizzati da proprietà fisiche e chimiche simili e presenti negli stessi giacimenti minerari.

E’ un metallo di colore bianco-argenteo, nobile, prezioso, brillante, scarsamente reattivo, stabile, resistente alla corrosione; viene rinvenuto in alcuni minerali contenenti nichel o rame ma si trova generalmente allo stato nativo nei depositi alluvionali.

Sono stati rinvenuti oggetti in leghe di platino risalenti al XII secolo a.C. presso le antiche civiltà Egizie mentre è databile al VII secolo a.C. il sarcofago di Tebe della principessa Shapenapit  decorato con lamine di oro, di argento e di una lega di platino.

Già noto alle popolazioni dell’America Latina in età precolombiana il platino venne considerato, dai conquistatori spagnoli come un’impurezza dell’argento e gli attribuirono il nome di platina dispregiativo del sostantivo plata che significa argento.

Il platino ha numeri di ossidazione +6, +5, +4, +3, +2, +1, -1, -2 e -3 sebbene i numeri di ossidazione più comuni siano +2 e +4.

Stante la sua inerzia chimica il platino viene attaccato dall’acqua regia secondo la reazione complessiva per dare l’acido cloroplatinico:

Pt(s) + 4 HNO3(aq) + 6 HCl(aq) → H2PtCl6(aq) + 4 NO2(g) + 4 H2O(l)

Dall’acido cloroplatinico per reazione con il nitrato di sodio si ottiene l’ossido di platino (IV) noto come catalizzatore di Adam utilizzato nelle reazioni di idrogenazione, deidrogenazione, ossidazione e di idrogenolisi:

H2PtCl6 + 6 NaNO3 → Pt(NO3)4 + 6 NaCl + 2 HNO3

Il nitrato di platino (IV) ottenuto viene riscaldato e, nella reazione di decomposizione, si ottiene NO2 e PtO2:

Pt(NO3)4 → PtO2 + NO2+ O2

Dalla decomposizione termica dell’acido cloroplatinico si ottiene il cloruro di platino (IV):

H2PtCl6  → PtCl4 + 2 HCl

Se l’acido cloridrico prodotto viene allontanato in soluzione acquosa il cloruro di platino (IV) cristallizza sotto forma di cristalli rossi come cloruro di platino (IV) pentaidrato.

Riscaldando in presenza di aria a una temperatura di 350°C dalla decomposizione termica dell’acido cloroplatinico si ottiene il cloruro di platino (II):

H2PtCl6  → PtCl2 + Cl2  + 2 HCl

Il cloruro di platino (II) dà luogo a reazioni con i leganti:

PtCl2 + 2 L → PtCl2L2

Nel caso il legante sia l’ammoniaca si ottiene il cisplatino PtCl2(NH3)2 agente usato nella chemioterapia.

Circa il 40% della produzione mondiale di platino viene usata nel campo della gioielleria in cui viene utilizzato prevalentemente in lega con l’oro.

Stante la sua resistenza alla corrosione e alla sua stabilità ad alta temperatura il platino viene utilizzato quale catalizzatore ed in particolare, insieme al palladio e al rodio, nei convertitori catalitici delle autovetture in cui il monossido di carbonio e gli idrocarburi incombusti vengono trasformati in biossido di carbonio.

Leghe di platino e osmio vengono utilizzate per pace-maker e valvole cardiache; leghe di platino sono usate in attrezzi chirurgici, negli utensili da laboratorio, nei cavi elettrici di resistenza e nei punti di contatto elettrico.

Vengono inoltre realizzati crogioli in platino che, rispetto alla ceramica, sono inerti agli attacchi degli acidi e delle basi e, grazie all’elevato punto di fusione del platino, vengono utilizzate nell’analisi termogravimetrica e nella calorimetria differenziale a scansione.

Con una lega di platino e iridio nel 1875 sono stati costruiti dalla Commissione internazionale dei pesi e misure il metro e il chilogrammo campioni che si conservano a Parigi.

Chanel N°5

Coco Chanel fu una grande stilista che rivoluzionò il concetto di femminilità e divenne la regina indiscussa della moda della sua epoca.

Negli anni ’20 dello scorso secolo Coco Chanel volle arricchire la sua linea con un profumo e commissionò al mastro profumiere Ernest Beaux che aveva lavorato per molti anni presso la A.Rallet & Co, casa storica dei profumi di lusso e fornitore ufficiale degli Zar, un nuovo profumo.

Chanel chiese espressamente che questo profumo non fosse caratterizzato, contrariamente ai profumi dell’epoca, da una fragranza prevalente, ma fosse una composizione di profumi e incarnasse un concetto di femminilità senza tempo, unica e affascinante.

Nella preparazione di questo profumo Beaux utilizzò per la prima volta aldeidi sintetiche a cui si accompagnavano profumi di rosa e gelsomino e creò una serie di profumi che numerò dal numero uno al cinque e dal venti al ventiquattro che sottopose al giudizio di Chanel.

Fu scelto in numero 5 e il giorno 5 del quinto mese del 1921 fu messo in commercio questo profumo che, nonostante abbia quasi un secolo rimane uno dei più prestigiosi, conosciuti e amati dalle donne di tutto il mondo.

Divenne ben presto uno status symbol e i soldati americani dopo la liberazione di Parigi nel 1944 facevano lunghe code per accaparrarsi lo Chanel N°5 per portarlo alle loro spose negli USA.

Il più grande testimonial del profumo fu Marylin Monroe che nel 1952 dichiarò “What do I wear in bed? Why, Chanel N° 5, of course”.

I profumi sono caratterizzati da tre componenti:

  • Nota di testa fragranza predominante per pochi minuti subito dopo l’applicazione
  • Nota di cuore che contiene le fragranze principali e che si percepisce per qualche ora dopo la scomparsa della nota di testa
  • Nota di fondo che contiene le specie più persistenti e rimane fin quanto tutto il profumo è evaporato.

Nella composizione del profumo Beaux utilizzò una miscela di ognuna delle tre note: per la nota di fondo si avvalse tra l’altro di profumo di vainiglia, sandalo, vetiver e muschio, per la nota di cuore del gelsomino, rosa, iris e mughetto, per la nota di testa della cananga odorata dall’odore floreale, neroli ottenuto dai fiori di arancio amaro e da aldeidi contenenti 10-12 atomi di carbonio.

Gli odori delle aldeidi variano sensibilmente a seconda del numero di atomi di carbonio: mentre le aldeidi con pochi atomi di carbonio hanno un odore sgradevole a pungente, mano a mano che la catena si allunga fino a 8-12 atomi di carbonio assumono un profumo ceroso floreale che si affievolisce per aldeidi con più di 14 atomi di carbonio.

La presenza di un sostituente metilico in posizione 2 rende la fragranza dell’aldeide più gradevole e intenso con riduzione della nota cerosa.

Tra le aldeidi che costituiscono la miscela di fragranze della Chanel N°5 vi è il 2-metilundecanale che risponde in pieno alle caratteristiche dell’aldeide ideale che si trova in natura nel kumquat frutto che assomiglia molto all’arancia.

La sintesi del 2-metilundecanale fu effettuata per la prima volta nel 1904 da Georges Darzens a partire dal 2-undecanone e metilcloroacetato.

Nelle sue linee generali tale reazione detta condensazione di Darzsens o condensazione dell’estere glicidico avviene tra un chetone e in α-alogeno estere con formazione di α,β-epossiesteri detti esteri glicidici che per idrolisi danno un epossiacido. Quest’ultimo, per riscaldamento dà luogo a una decarbossilazione con produzione di aldeidi o chetoni.

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sintesi

Il profumo confezionato in una bottiglia di vetro pregiato con un’etichetta bianca con scritte nere costituisce ancora oggi il Mito dei profumi

Idrogenolisi

L’idrogenolisi è una reazione chimica in cui si rompe un legame carbonio-carbonio o un legame carbonio-eteroatomo come ossigeno, azoto o zolfo  grazie all’azione dell’idrogeno gassoso con formazione di un legame C-H e H-X rispettivamente.

L’idrogenolisi si differenzia dall’idrogenazione in quanto, l’idrogeno gassoso, pur essendo utilizzato in entrambi i casi, nell’idrogenolisi si ha una rottura di un legame semplice e formazione di due molecole, nell’idrogenazione si ha una reazione di addizione con rottura di doppi o tripli legami e il prodotto di reazione ha lo stesso numero di atomi di carbonio presenti nel reagente.

Esempi di idrogenolisi in cui avviene la rottura di un legame carbonio-carbonio sono l’idrogenolisi del propano porta alla formazione di etano e metano:
CH3-CH2-CH3 + H2 → CH3-CH3  + CH4

e l’idrogenolisi del toluene che porta a benzene e metano:

C6H5CH3 + H2 → C6H6  + CH4

Un esempio di idrogenolisi in cui avviene la rottura di un legame carbonio-eteroatomo è l’idrogenolisi della benzilammina che porta alla formazione di toluene e ammoniaca:

C6H5CH2NH2 + H2 → C6H5CH3 + NH3

L’idrogenolisi degli alogenuri alchilici, ad eccezione dei fluoruri, porta alla formazione dell’alcano corrispondente con rottura del legame C-X essendo X l’alogeno:

CH3CH2CH2Cl + H2 → CH3CH2CH3 + HCl

La reazione avviene in ambiente acido in presenza di zinco.

L’idrogenolisi degli esteri porta alla formazione di due alcoli:

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idrogenolisi esteri

Gli eteri benzilici, a seguito della rottura del legame C-O danno luogo alla formazione di alcoli e toluene:

R-O-CH2C6H5 + H2 → ROH + C6H5CH3

Poiché i tiochetali, composti analoghi al chetali in cui vi è un atomo di zolfo al posto di un atomo di ossigeno, a seguito di idrogenolisi in presenza di Nichel Raney danno luogo alla formazione di un alcano nella reazione di Mozingo, si possono trasformare i chetoni in alcani stante la formazione di un tiochelale quale intermedio

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Mozingo

L’idrogenolisi trova applicazione in campo industriale nel processo di idrodesolforazione per allontanare lo zolfo da prodotti petroliferi quali benzina, gasolio, cherosene e oli combustibili.

Ad esempio l’etantiolo presente in alcuni prodotti petroliferi viene sottoposto a idrogenolisi in presenza di catalizzatore come il disolfuro di rutenio RS2 per dare etano e solfuro di idrogeno:

CH3CH2-SH + H2 → CH3CH3 + H2S

L’idrogenolisi viene inoltre utilizzata in campo industriale per la trasformazione del glicerolo che è uno dei sottoprodotti della produzione del biodiesel.

La reazione avviene in presenza di catalizzatori eterogenei e procede in due stadi: nel primo stadio avviene la disidratazione con formazione di due prodotti ovvero idrossipropanone e 3-idrossipropanale la cui idrogenolisi porta rispettivamente all’ 1,2-propandiolo e all’1,3-propandiolo

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idrogenolisi glicerolo

Vanillina

La vanillina è il principale componente odoroso presente nel baccello di vaniglia e viene usata principalmente per aromatizzare gli alimenti.

Il nome chimico della vanillina è 4-idrossi-3-metossibenzaldeide e la sua struttura è rappresentata in figura:

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vanillina

Chimicamente è un’aldeide aromatica che presenta tre gruppi funzionali: oltre al gruppo aldeidico vi è infatti il gruppo –OH tipico degli alcoli e il gruppo R-O-R tipico degli eteri.

Le caratteristiche strutturali della vanillina che includono il gruppo benzenico di tipo apolare, la presenza del gruppo aldeidico che può dar luogo a molte reazioni tra cui quella di Maillard e la possibilità di formazione di legami a idrogeno sia intermolecolari che intramolecolari influenzano il comportamento della molecola a seconda delle condizioni in cui è trattata.

Ad esempio in condizioni basiche il gruppo alcolico perde un protone e lo ione formatosi è più solubile in acqua.

La vanillina era nota alle civiltà precolombiane ed era del tutto sconosciuta nel vecchio continente; quando i conquistatori spagnoli guidati da Hernan Cortes giunsero in Messico nel 1520 scoprirono che l’imperatore Montezuma faceva uso di una bevanda a base di semi di cacao, mais macinato e miele aromatizzata con baccelli di vainiglia.

Da allora per oltre tre secoli, nonostante i tentativi di introdurre la coltivazione della vainiglia altrove, il Messico rimase il principale produttore di questa pianta.

Solo dopo la scoperta della tecnica di impollinazione artificiale avvenuta intorno al 1841 furono coltivate piantagioni di vainiglia in Jamaica e in altre isole delle Indie Occidentali.

Fu solo nel 1858 che il biochimico francese Nicolas Theodore Gobley riuscì ad isolare la vanillina mentre nel 1874 i chimici tedeschi Ferdinand Tiemann e Wilhelm Haarmann riuscirono a determinarne la struttura e a sintetizzarla a partire dalla coniferina.

Per la sua scarsa diffusione e per gli alti costi di lavorazione la vanillina è la seconda spezia, dopo lo zafferano, più costosa al mondo pertanto quella polvere bianca dall’aroma intenso che arricchisce le preparazioni alimentari è di origine sintetica.

Vi sono molti metodi sintetici della vanillina che può essere ottenuta dal guaiacolo ovvero 2-metossifenolo contenuto in molti catrami e principale costituente del creosoto, sostanza ottenuta dalla distillazione frazionata del catrame di faggio e dall’acido ossoetanoico noto come acido gliossilico:

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sintesi dal guaiacolo

La vanillina può essere inoltre ottenuta dal 2-metossi-4-(prop-2-en-1-il)-fenolo noto come eugenolo che in ambiente basico isomerizza a isoeugenolo che per ossidazione con nitrobenzene dà luogo alla formazione di vanillina.

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sintesi da eugenolo

Un altro metodo di sintesi della vanillina prevede una sostituzione elettrofila aromatica della 4-idrossibenzaldeide operata da Br2 con ottenimento della 3-bromo-4-idrossibenzaldeide seguita dalla metossilazione in presenza di rame quale catalizzatore.

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sintesi da 4-idrossibenzaldeide

Nell’antichità la vanillina veniva considerata una sostanza afrodisiaca e in grado di abbassare la febbre sebbene non ci siano alcuni riscontri scientifici a queste proprietà sebbene è dimostrato che aumenti le catecolammine tra cui l’adrenalina

La vanillina è utilizzata dall’industria dolciaria quale aromatizzante, viene aggiunta ad alcuni tipi di cioccolato ed è usata dall’industria dei profumi tra le sostanze che costituiscono la nota di fondo ovvero tra le specie che mostrano maggiore persistenza.

La vanillina, solubilizzata in etanolo e acido solforico viene usata per visualizzare delle macchie sulle lastre utilizzate nella cromatografia su strato sottile.

Nanoparticelle d’oro

L’oro è il metallo che più di ogni altro è stato considerato il più prezioso e sin dagli albori della civiltà ha affascinato gli uomini costituendo il simbolo della ricchezza.

Le caratteristiche dell’oro che non si corrode né si scurisce e che non tende ad interagire con altri elementi indussero le antiche popolazioni a ritenerlo come una panacea per la cura delle malattie. Sembra che già nel 2500 a.C. i Cinesi lo adoperassero per il trattamento delle malattie delle articolazioni, perdita di coscienza, febbre, svenimenti, vaiolo, ulcere della pelle, morbillo e convulsioni.

Gli antichi Egizi 5000 anni fa lo usavano in campo odontoiatrico e ritenevano che, una volta ingerito, stimolasse il corpo e la mente.

Solo secoli più tardi fu il medico e alchimista tedesco Paracelso, che costituisce una delle figure più rappresentative del Rinascimento, a preparare una soluzione di oro colloidale che riteneva potesse curare i disturbi fisici, mentali e spirituali.

Fu solo nel 1850 che, grazie al lavoro di Michael Faraday, si iniziarono ad avere le prime conoscenze scientifiche dell’oro colloidale.

L’oro colloidale è costituito da una sospensione stabile in cui sono presenti particelle d’oro di dimensioni inferiori al micron.

Le nanoparticelle, date le loro dimensioni vicine alle dimensioni atomiche, mostrano proprietà fisiche diverse dal metallo di cui sono costituite come ad esempio la colorazione che nelle nanoparticelle assume una colorazione che va dal rosso al viola.

Per ottenere le nanoparticelle si parte da una soluzione di acido cloroaurico HAuCl4 in cui l’oro ha numero di ossidazione +3; a questa soluzione, sotto agitazione, viene aggiunto un riducente e l’oro (III) viene ridotto a oro metallico.

Mano a mano che si formano gli atomi d’oro la soluzione diventa sovrasatura e l’oro inizia a precipitare sotto forma di particelle di dimensioni submicrometriche.

Per evitare che le particelle possano formare aggregati viene aggiunto un agente stabilizzante che aderisce alla superficie delle particelle.

Il primo metodo per ottenere nanoparticelle d’oro (Au-NPs) che rimane quello più semplice ed è adatto ad ottenere particelle sferiche delle dimensioni di 10-20 nm si deve a J. Turkevich che lo mise a punto nel 1951.

Dopo l’attacco dell’oro metallico da parte dell’acqua regia e formazione dell’acido cloroaurico la soluzione viene riscaldata fino all’ebollizione e successivamente vengono aggiunti 10 mL di una soluzione di citrato all’1% mantenendo sotto agitazione per far rimanere la soluzione omogenea.

Il citrato agisce inizialmente da riducente e, una volta che si sono formate le nanoparticelle viene adsorbito da esse formando uno stato carico negativamente che ne impedisce l’aggregazione.

Al posto del citrato, quale agente riducente, si può usare acido ascorbico o boroidruro.

Quale stabilizzante possono essere usati ammine, tioli, fosfine, polimeri o carbossilati.

Dopo circa un minuto e per i successivi 2-3 minuti si osserva una colorazione grigio tenue che successivamente diventa prima color vino e successivamente color rosso.

La reazione può essere così schematizzata tenendo conto che lo ione citrato è C6H5O73-:

2 AuCl4+ C6H5O73- + 2 H2O → 2 Au + 3 CH2O + 3 CO2 + 8 Cl + 3 H+

Un altro metodo per l’ottenimento di nanoparticelle risale al 1990 ed è dovuto a Brust in cui si ottengono le nanoparticelle in solventi organici non miscibili con l’acqua come, ad esempio, il toluene.

Il metodo Brust prevede l’utilizzo di due riducenti ovvero un legante tiolico che ha anche la funzione di formare il monostrato organico e il sodio boroidruro che esercita anche la funzione di anticoagulante per un processo di riduzione di Au(III) prima a Au(I) e successivamente a Au,

Il processo avviene in due fasi ovvero una fase acquosa in cui è solubile l’acido cloroaurico e una fase organica in cui sono solubili i leganti tiolici.

Per trasferire HAuCl4 dalla fase acquosa alla fase organica è necessario un trasferitore di fase che nella fattispecie è il tetraottilammonio bromuro (TOABr) che presenta un gruppo idrofobo e un gruppo idrofilo.

I leganti tiolici si legano ad Au(III)  riducendolo ad Au(I) e instaurando legami S-Au(I). L’aggiunta del secondo riducente NaBH4, serve a ridurre l’oro da  Au(I) a Au(0), formando il nucleo metallico già ricoperto da tiolo.

Le nanoparticelle d’oro hanno enormi potenzialità e su di esse si concentrano ancora ricerche; possono essere usate tra l’altro come catalizzatori, come substrato su cui vengono depositati sostanze da analizzare tramite la spettroscopia Raman amplificata da superfici ma gli studi maggiori avvengono in campo medico per la cura di patologie quali l’artrite reumatoide e il morbo di Alzheimer.

Stante la caratteristica delle nanoparticelle d’oro di assorbire la luce nel vicino infrarosso (900-1200 nm) regione in cui tessuti biologici mostrano un’elevata trasmissione della radiazione elettromagnetica esse possono essere impiegate nella lotta al cancro.

Se opportunamente funzionalizzate per riconoscere recettori presenti solo nei tessuti patologici, possono accumularsi nei tessuti malati e tramite la fototerapia possono assorbire energia luminosa convertendola in energia termica distruggendo così le cellule malate.


Zafferano

Lo zafferano è la spezia più costosa estratta dagli stimmi di una pianta iridacea appartenente al genere Crocus denominata Zafferano vero coltivata in Asia Minore e nel bacino del Mediterraneo.

Conosciuto fin dall’antichità lo zafferano viene citato nella Bibbia nei versi del Cantico dei Cantici in cui uno sposo descriveva lo zafferano come una delle piante più belle del suo giardino e ne paragonava la bellezza alla propria sposa:

“I tuoi germogli sono un paradiso di melagrane,

con i frutti più squisiti,

alberi di cipro e nardo,

nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo”

Lo zafferano è conosciuto da millenni per le sue presunte qualità medicinali nonché per le sue proprietà aromatiche e coloranti; nell’antica Roma veniva usato nella cosmesi oltre che come colorante per i tessuti.

Lo zafferano contiene molti componenti volatili e componenti non volatili gran parte dei quali sono carotenoidi tra cui la zeaxantina appartenente alle xantofille, il licopene tetraterpene costituito da otto unità isopreniche isomero del beta-carotene, l’α e il β carotene formati da otto unità isopreniche.

Il tipico colore dello zafferano è dovuto in prevalenza alla crocina ovvero al diestere del disaccaride gentobiosio e dell’acido carbossilico crocetina ramificato e polinsaturo. La crocina ha un colore rosso intenso ma sciolta in acqua impartisce alla soluzione un colore arancione.

Il sapore amaro tipico dello zafferano è dato dalla pirocrocina, monoterpene glicosidico, prodotto della degradazione della zeaxantina che durante il processo di essiccamento libera l’aglicone sotto l’azione dell’enzima glicosidasi.

L’aglicone viene poi trasformato, a seguito di disidratazione in safranale che costituisce il maggior responsabile dell’aroma dello zafferano. Oltre alla picrocrocina sono presenti numerosi altri glicosidi che possono subire idrolisi per dare una serie complessa di composti volatili.

Il safranale chimicamente è un’aldeide che mostra un elevato potere antiossidante e proprietà antidepressive ed è un olio volatile.

Il safranale è meno amaro picrocrocina e può comprendere fino al 70% della frazione volatile di zafferano secco in alcuni campioni.

Lo zafferano contiene anche la riboflavina o vitamina B2 e la tiamina o vitamina B1 entrambe classificate come molecole appartenenti alle vitamine del gruppo B.

Lo zafferano secco è molto sensibile a variazioni di pH e dà luogo a reazioni in presenza di luce o di blandi ossidanti e va pertanto conservato in modo opportuno per evitare il contatto con l’ossigeno.

Lo zafferano detto anche polvere d’oro viene usato nella medicina alternativa per la cura di varie patologie e in preparazione cosmetiche. Trova, tuttavia, il maggior utilizzo, in cucina per la realizzazione di piatti che per il loro gusto inconfondibile sono famosi nel mondo come il risotto alla milanese e la gustosa bouillabaisse.

Iridio

L’iridio è un metallo di transizione appartenente al Gruppo 9 e al 6° Periodo con configurazione elettronica [Xe] 4f14 5d7 6s2.

L’iridio unitamente al platino, rutenio, rodio, palladio e osmio che occupano posizioni contigue nella Tavola Periodica fa parte dei metalli del gruppo del platino caratterizzati da proprietà fisiche e chimiche simili e presenti negli stessi giacimenti minerari.

E’ un metallo duro ma fragile di colore bianco-argenteo con venature giallastre, resistente alla corrosione ed è l’unico metallo ad avere buone proprietà meccaniche anche al di sopra dei 1600°C e diventa duttile e facilmente lavorabile a una temperatura tra i 1200 e i 1500 °C.

Il metallo è praticamente insolubile negli acidi e non è attaccato dall’acqua regia ma può essere solubilizzato in acido cloridricoconcentrato in presenza di perclorato di sodio a una temperatura tra i 125 e i 150°C.

Fu scoperto nel 1803 dal chimico britannico Smithson Tennant insieme all’osmio quando, dopo aver attaccato il platino con acqua regia fu notato un residuo insolubile di colore nero.

Fu chiamato iridio in onore della dea Iride personificazione, secondo la mitologia greca, dell’arcobaleno per i colori dei suoi sali.

Ha numeri di ossidazione −3, −1, 0, + 1, + 2, + 3, + 4, + 5, + 6, + 7,+ 8, + 9 anche se i numeri di ossidazione più comuni sono +1,+3, +4.

L’iridio viene separato dagli altri metalli appartenenti al gruppo del platino come esacloroiridato di ammonio (NH4)2[IrCl6].

Gli altri metalli infatti sotto forma di cloruri formano solfuri insolubili quando vengono fatti reagire con il solfuro di idrogeno mentre lo ione esacloroiridato non dà questo tipo di reazione e viene ridotto a iridio metallico in corrente di idrogeno ad alta temperatura.

(NH4)2[IrCl6] + 2 H2 → Ir + 6 HCl + 2 NH3

L’iridio reagisce con gli alogeni e forma composti dove presenta il numero di ossidazione +3 reagendo con essi:

2 Ir + 3 X2 → 2 IrX3

Gli alogenuri di iridio (III) sono caratterizzati da diverse colorazioni: IrF3 è nero, IrCl3 è rosso, IrBr3 è rosso-marrone mentre IrI3 è marrone.

Gli unici alogenuri di iridio con numero di ossidazione diverso da + 3 sono i fluoruri ovvero IrF4, IrF5 ed in particolare IrF6 solido giallo molto reattivo che si decompone in acqua e può essere ridotto a fluoruro di iridio (IV).

L’iridio forma ossidi tra cui il biossido di iridio IrO2 che è una polvere di colore scuro utilizzato per rivestimenti di elettrodi anodici; l’ossido di iridio (III) polvere di colore blu scuro viene ossidato da HNO2 e biossido di iridio.

L’acido esacloroiridico (IV) H2IrCl4 e il suo sale di ammonio sono i precursori di molti composti dell’iridio; lo ione IrCl42- di colore marrone scuro può essere ridotto a IrCl43-.

L’iridio si lega al carbonio per formare metallo carbonili come il dodecacarbonile di tetrairidio Ir4(CO)12 o il complesso di Vaska avente formula trans-[Ir(CO)Cl(PPh3)2], complesso organometallico in cui uno ione centrale di Ir(I) è legato con due leganti trifenilfosfina, un carbonile e uno ione cloruro

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vaska

Tra i complessi dell’iridio vi è il (ppy)2Ir(phen) in cui l’iridio forma un complesso cationico con due fenilpiridina e un legante diiminico

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ppy)2Ir(phen)

che è un fluoroforo ovvero una specie che, dopo aver assorbito fotoni a una determinata lunghezza d’onda, mostra fluorescenza.

I complessi dell’iridio che mostrano fluorescenza vengono utilizzati nella produzione di OLED ovvero di diodi organici ad emissione di luce per realizzare display a colori con la capacità di emettere luce propria.

Un altro complesso dell’iridio è l’iridio pentametilciclopentalienil dicloruro [(C5(CH3)5IrCl2)]2  che è il precursore di molti catalizzatori.

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iridio pentametilciclopentalienil dicloruro

Per la sua somiglianza con il platino che forma il cisplatino utilizzato nella chemioterapia i composti dell’iridio vengono studiati per valutare la loro efficacia nella cura del cancro.

L’iridio vene usato nelle leghe ed in particolare con il platino per conferire maggiore durezza; inoltre le leghe platino iridio presentano un coefficiente termico nullo motivo per il quale con una lega di platino e iridio nel 1875 sono stati costruiti dalla Commissione internazionale dei pesi e misure il metro e il chilogrammo campioni che si conservano a Parigi. Le leghe platino-iridio vengono inoltre utilizzate nei contatti elettrici.

L’iridio viene inoltre utilizzato in lega con l’osmio per i pennini delle penne stilografiche e per i perni delle bussole mentre nei pennini in oro la punta, che è maggiormente soggetta a sollecitazioni meccaniche è realizzata in iridio.

 

Determinazione del manganese in un acciaio

L’acciaio è una lega ferro-carbonio in cui sono contenute tracce di elementi di transizione come manganese, cromonichel e rame.

Il manganese comunemente presente nell’acciaio per le sue caratteristiche di desolforante e deossidante con concentrazioni intorno allo 0.3% ma in particolari tipi di acciaio la sua concentrazione aumenta fino a superare l’1%. Tali acciai, detti acciai al Mn conferiscono all’acciaio una maggiore durezza e resistenza all’usura sebbene lo rendano più fragile e quindi la determinazione quantitativa del manganese fornisce informazioni relative al tipo e alla qualità dell’acciaio.

La determinazione quantitativa del manganese può essere effettuata con metodi spettroscopici o con metodi volumetrici.

Per procedere alla determinazione del manganese per via volumetrica si devono preparare due soluzioni standard: una soluzione standard di permanganato e una soluzione standard di ferro (II) ammonio solfato esaidrato noto come sale di Mohr.

La standardizzazione del permanganato avviene con uno standard primario come l’ossalato secondo la reazione:

2 MnO4 + 5 C2O42- + 16 H+ → 2 Mn2+ + 10 CO2 + 8 H2O

La standardizzazione dello ione ferro (II) contenuto nel sale di Mohr viene fatta con il permanganato secondo la reazione:

2 MnO4 + 5 Fe2+ + 8 H+ → 2 Mn2+ + 5 Fe3+ + 4 H2O

Si procede trattando circa 1 g di acciaio debitamente pesato con una bilancia analitica con 50 mL di HNO3 a concentrazione 4 M fino all’ebollizione in un becker da 250 mL coperto con un vetrino da orologio.

Il processo di digestione dura circa un’ora ed è quindi necessario eventualmente aggiungere altro acido nitrico per mantenere il volume intorno ai 50 mL.

Successivamente viene aggiunto lentamente 1 g di perossidisolfato di ammonio e si lascia bollire per circa 15 minuti.

Durante l’ebollizione il perossidisolfato ossida il carbonio presente secondo la reazione:

2 S2O82- + C + 2 H2O →  4 SO42- + CO2 + 4 H+

Se la soluzione appare rosa o contiene un precipitato scuro si aggiungono 0.1 g di solfito acido di sodio per la presenza di permanganato si riscalda per altri 5 minuti per ridurre a manganese (II) il permanganato eventualmente presente secondo la reazione:

5 HSO3 + 2 MnO4 + H+ → 5 SO42- + 2 Mn2+ + 3 H2O

La soluzione viene lasciata raffreddare a temperatura ambiente e successivamente travasata quantitativamente in un pallone tarato da 250 mL e portata a volume.

Lo ione Mn2+ viene ossidato a ione MnO42- con un eccesso di bismutato di sodio fin quando la soluzione diventa viola per la presenza di permanganato. Avviene la reazione:

2 Mn2+ + 5 BiO3 +  14 H+→ 2 MnO4 + 5 Bi3+ + 7 H2O

Si uniscono 25 mL della soluzione contenente il manganese sotto forma di permanganato proveniente dalla soluzione da analizzare e 25 mL della soluzione standard del sale di Mohr.

Lo ione permanganato reagisce con il ferro (II) e la soluzione appare limpida. L’eccesso di ferro (II) viene retrotitolato dal permanganato fino a comparsa del colore violetto.
Calcoli:

Moli di Fe2+ = Volume della soluzione standard del sale di Mohr x Concentrazione della soluzione

Moli di permanganato = Volume della soluzione standard del permanganato x Concentrazione della soluzione

Moli di Fe2+ che hanno reagito con il titolante = moli di permanganato x 5/2

Moli di ferro in eccesso = moli di ferro iniziali – moli di ferro che hanno reagito con il titolante

Moli di permanganato contenute in 25 mL della soluzione incognita = moli di ferro in eccesso x 2/5

Poiché la soluzione incognita ha un volume di 250 mL e sono stati titolati 25 mL di questa soluzione per conoscere il manganese presente nell’acciaio si moltiplica quest’ultimo dato per 10.

Si conoscono così le moli di Mn contenute nella lega e conseguentemente i grammi nel campione incognito e precedentemente pesato quindi si può calcolare il % m/m di Mn nell’acciaio.

Bronzo

Il bronzo è la prima lega metallica conosciuta dall’umanità utilizzata per forgiare armi e utensili e usata al posto del rame che, per la sua fragilità, era poco adatto a questi scopi.

Sebbene siano stati rinvenuti reperti in bronzo risalenti a circa 7000 anni fa in Medio Oriente e in Cina l’età del bronzo in Europa inizia nel 3500 a.C. il bronzo fu largamente utilizzato per la realizzazione di opere d’arte come i bronzi di Riace, la statua di Zeus e l’auriga di Delfi che hanno sfidato i secoli giungendo fino a noi.

Simbolo di maestosità, regalità e durevolezza viene citato da Orazio in cui il poeta ricorda di aver compiuto un’opera che gli anni non scalfiranno Exegi monumentum aere perennius.” (Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo).

Fregi artistici utilizzati in mobili di lusso a partire dal ‘700 venivano utilizzati in bronzo dorato al mercurio: l’oggetto da dorare veniva spruzzato con acido nitrico e successivamente bagnato con un composto di doratura costituito da oro e mercurio e posto in forno dove il mercurio evapora e l’oro rimane applicato sulla superficie,

Il bronzo è una lega ramestagno ma può contenere altre specie come manganese, alluminio, nichel, fosforo, silicio, arsenico e zinco.

Attualmente il bronzo è generalmente costituito dall’88% di rame e dal 12% di stagno ma, a seconda degli utilizzi, la composizione varia sia per quanto attiene il tenore dei due principali elementi sia per l’aggiunta di altri.

Sulla base dei componenti presenti il bronzo presenta caratteristiche peculiari che ne differenziano i campi di impiego: in campo industriale si realizzano infatti dalle boccole ai bronzini, apparecchi idraulici, cuscinetti, ingranaggi, ruote dentate fino a componenti per l’arredamento.

Lo stagno conferisce durezza e in lega con il rame ne diminuisce la tipica malleabilità infatti leghe con un maggior tenore di stagno sono più dure ma meno malleabili.

La durezza del bronzo è dovuta al fatto che il rame e lo stagno presentano raggi atomici di dimensioni simili quindi il bronzo è una lega di sostituzione.  Poiché nelle leghe di sostituzione sussistono sia pur lievi differenze di dimensioni e di struttura elettronica, gli atomi del soluto ovvero dello stagno distorcono la forma del reticolo e ostacolano il flusso degli elettroni. La distorsione del reticolo rende più difficile lo scorrimento dei piani atomici e, di conseguenza, mentre godrà di minore conduttività termica ed elettrica, la lega di sostituzione sarà più dura e più forte.

Da un punto di vista chimico la superficie del bronzo tende a corrodersi sebbene esso mostri una buona resistenza a atmosfere industriali e marine e se opportunamente rivestito anche ad acidi deboli.

E’ invece scarsamente resistente a composti come ammoniaca, cianuri ed è sensibile all’inquinamento urbano; la presenza di sostanze chimiche nell’atmosfera come ossidi di azoto e composti contenenti zolfo costituiscono infatti una delle maggiori cause di deterioramento.

La corrosione del bronzo procede a stadi influenzati dalla composizione della lega, dalle condizioni atmosferiche e da eventuali trattamenti protettivi fatti preventivamente sul bronzo. Nella prima fase avviene l’ossidazione del rame con formazione di un film sottile costituito prevalentemente da ossido di rame che tuttavia può fungere da barriera protettiva nei confronti di agenti chimici. La presenza di solfuri, tuttavia, altera la composizione del film protettivo danneggiandolo.

Nella seconda fase avviene sulla superficie esposta la formazione di solfato di rame di colore verde mentre nella terza i composti formatisi in superficie subiscono ulteriori reazioni con formazione di una crosta vera e propria di colore nero. Successivamente queste reazioni avvengono anche al di sotto della superficie accelerate dalla presenza di cloruri e nell’ultima fase vi è la conversione di tutta la superficie con formazione di una crosta blu che presenta fessure e porosità che favoriscono il procedere della corrosione.

La malattia del bronzo che colpisce antichi manufatti è dovuta principalmente al cloruro di rame (I) che a contatto con l’ossigeno e l’umidità si trasforma producendo acido cloridrico che attacca il bronzo producendo così un processo ciclico nuovamente cloruro di rame (I).

A dispetto di quanto si riteneva il bonzo pur dotato di caratteristiche peculiari non è poi così duraturo ma certamente Orazio non poteva conoscere la chimica e tantomeno i danni da inquinamento ambientale.

Barbiturati

I barbiturati sono sostanze di origine sintetica che vengono usate in campo medico in quanto agiscono sul sistema nervoso centrale come sedativi, anestetici, ansiolitici, ipnotici.

Vengono inoltre utilizzati per l’epilessia, per il suicidio assistito, per l’eutanasia e vengono somministrati insieme ad altri componenti nell’iniezione letale.

I barbiturati sono derivati dell’acido barbiturico che fu sintetizzato dal chimico tedesco Adolf von Baeyer nel 1864 tramite una reazione di condensazione dell’urea con l’acido malonico con eliminazione di due molecole d’acqua

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acido barbiturico

L’acido barbiturico, tuttavia, non è farmacologicamente attivo mentre alcuni suoi derivati come il barbital che fu il primo di essi ad essere sintetizzato nel 1881 fu individuato solo nel 1902 come sostanza ad azione sonnifera nei cani e sull’uomo e introdotto per usi medici nel 1904 con il nome di Veronal.

I barbiturati agiscono nei confronti dell’acido γ-amminobutirrico (GABA) principale neurotrasmettitore inibitorio del sistema nervoso centrale

Il barbital fu sintetizzato per condensazione dell’estere dietil,2,2- dietilmalonato con urea in presenza di etossido di sodio

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barbital

Il barbital che si presenta come un solido cristallino bianco, dal sapore amaro e inodore, fu utilizzato quale sonnifero in sostituzione dei bromuri che erano stati utilizzati fino ad allora presentando minori effetti collaterali.

Da allora la ricerca nel campo dei derivati dell’acido barbiturico si estese per trovare nuove sostanze con effetti farmacologici.

Nel 1912 fu sintetizzato il fenobarbital che fino al 1960, quando furono scoperte sostanze meno pericolose, veniva prescritto come anticonvulsivante e per la cura dell’insonnia.

La sintesi del fenobarbital noto come luminal può avvenire secondo più modalità; in una tra queste si parte dal cianuro di benzile che viene fatto reagire con l’etanolo in ambiente acido con ottenimento dell’estere etilico dell’acido  fenilacetico.

Usando l’ossalato dietilico l’estere dà luogo a una condensazione di Claisen incrociata per dare l’estere dietilico dell’acido fenilossobutandioico che, a seguito di riscaldamento, si decompone in monossido di carbonio e dietil fenilmalonato. A seguito della reazione con bromuro di etile in presenza di etossido di sodio e per successiva condensazione con l’urea si ottiene in fenobarbital.

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sintesi

Da allora sono stati sintetizzati altri barbiturati come il pentobarbital noto come nembutal, ipnotico e preanestetico ad azione rapida utilizzato in combinazione con un miorilassante nell’eutanasia e nell’iniezione letale.

I barbiturati anche assunti per motivi medici ed in dosi terapeutiche possono dar luogo in caso di consumo prolungato all’insorgere di uno stato di tolleranza e di fortissima dipendenza dando una sindrome da astinenza più intensa e duratura rispetto a quella provocata dall’eroina.

I tossicomani che fanno uso di oppiacei e di amfetamine fanno uso di barbiturati i cui effetti si oppongono a all’eccitazione provocata da tali droghe.

Per i loro effetti indesiderati, oltre che per il loro potenziale di assuefazione e di dipendenza fisica, i barbiturati sono stati superati da altri tipi di composti ad azione sedativo-ipnotica come le benzodiazepine

Acido malonico

L’acido propandioico noto come acido malonico è un acido bicarbossilico avente formula HOOC-CH2-COOH che si presenta come un solido bianco cristallino solubile in acqua, alcol ed etere.

L’acido malonico fu ottenuto per la prima volta nel 1858 e attualmente viene sintetizzato a partire dall’acido cloroacetico che viene neutralizzato con carbonato di sodio per dare il cloroacetato.

Quest’ultimo reagisce con il cianuro di sodio per dare il sale dell’acido cianoacetico tramite una reazione di sostituzione nucleofila.

In ambiente basico il gruppo nitrile viene idrolizzato per dare il malonato di sodio che, per successiva acidificazione si trasforma in acido acetico.

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sintesi acido malonico

Per ottenere l’acido malonico si può procedere con l’ossidazione dell’1,3-propandiolo operata dall’acido nitrico secondo la reazione

3 HO-CH2-CH2-CH2-OH + 8 HNO3 →  3 HOOC-CH2-COOH + 8 NO + 10 H2O

L’acido malonico è il precursore della sintesi malonica.

Il primo passo nella sintesi malonica consiste nell’esterificazionedell’acido malonico con un alcol come, ad esempio l’etanolo; il prodotto di tale esterificazione è il dietilmalonato anche detto estere malonico.

La reazione procede attraverso la partecipazione degli idrogeni α-metilenici del dietilmalonato i quali danno luogo a reazioni di sostituzione nucleofila o di addizione nucleofila.

Per mezzo di una base forte come NaOH, stante l’acidità degli α-idrogeni al gruppo carbonilico, un α-idrogeno viene strappato con conseguente ottenimento di un carbanione che è stabilizzato dalla formazione di un enolato stabilizzato per risonanza.

Il carbanione così formatosi può attaccare un alogenuro alchilico con ottenimento di un estere malonico monoalchilato  che per decarbossilazione  può infine fornire un acido acetico alchilato.

A seguito di riscaldamento l’acido malonico dà una reazione di decomposizione con formazione di acido acetico e biossido di carbonio:

HOOC-CH2-COOH → CH3-COOH + CO2

L’acido malonico può dare una reazione di condensazione con l’urea per dare acido barbiturico:

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acido-barbiturico

L’acido malonico oltre che come precursore di molti composti chimici trova ampio utilizzo in campo industriale per l’ottenimento di resine alchidiche, quale reticolante per rivestimenti, per controllare l’acidità degli alimenti, quale eccipiente nelle preparazioni farmaceutiche, per ottenere aromi e fragranze e come adesivo chirurgico.

Da qualche anno l’acido malonico è oggetto di studi in quanto da esso può essere ottenuto l’1,3-propandiolo; quest’ultimo viene utilizzato, insieme all’acido tereftalico per ottenere il politrimetilentereftalato poliestere usato nelle fibre tessili.

Nell’ambito della Green Chemistry si è quindi ottenuto l’acido malonico da processi di fermentazione degli zuccheri derivanti da biomasse, scarti agricoli o trucioli del legno

Palladio

Il palladio è un metallo di transizione appartenente al Gruppo 10 e al 5° Periodo avente configurazione elettronica [Kr] 4d10.

Il palladio unitamente al platino, rutenio, rodio, iridio e osmio che occupano posizioni contigue nella Tavola Periodica fa parte dei metalli del gruppo del platino caratterizzati da proprietà fisiche e chimiche simili e presenti negli stessi giacimenti minerari e tra essi è quello che ha minore densità e punto di fusione minore.

Il palladio è tenero, di colore bianco-argenteo, non reagisce con l’ossigeno a temperatura ambiente quindi non tende a ricoprirsi di uno strato di ossido mentre a una temperatura di 800°C dà luogo alla formazione di ossido di palladio (II).

Si solubilizza in acido nitrico concentrato, in acido solforico a caldo e in acqua regia.

Fu scoperto nel 1903 dal chimico e fisico britannico William Hyde Wollaston nell’ambito dei suoi studi sul platino. Dopo aver disciolto il minerale in acqua regia dapprima neutralizzò la soluzione con idrossido di sodio e poi la trattò con cloruro di ammonio ottenendo un precipitato di esacloroplatinato di ammonio (NH4)2[PtCl6].

Alla soluzione fu poi aggiunto cianuro di mercurio che diede luogo alla formazione del cianuro di palladio composto che ha una scarsissima solubilità in acqua. Dopo filtrazione e ottenimento del cianuro di palladio solido quest’ultimo fu sottoposto a riscaldamento a seguito del quale fu eliminato il cianuro con ottenimento del palladio.

Wollaston comprese di aver scoperto un nuovo elemento ma non lo comunicò alla comunità scientifica e lo mise in vendita come “nuovo argento”. Il chimico irlandese Richard Chenevix studiò il campione e dichiarò che esso non fera altro che una lega di mercurio e platino. Allora Wollaston offrì una cospicua somma di denaro a chi fosse riuscito ad isolare il platino da questo campione e, non avendo avuto alcuna risposta, ne comunicò la scoperta.

Il palladio presenta numero di ossidazione 0 oltre che quando non è combinato anche in numerosi complessi aventi formula PdL2, PdL3 e PdL4.

Il palladio ha inoltre numeri di ossidazione che vanno da +1 a +6 sebbene nei composti più comuni abbia numero di ossidazione +2.

Tra i composti più comuni del palladio vi è il cloruro di palladio (II) preparato solubilizzando il palladio in acqua regia o in acido cloridrico in presenza di cloro.

Esso oltre ad essere utilizzato per ottenere altri composti del palladio viene utilizzato nei rivelatori di monossido di carbonio con il quale reagisce secondo la reazione:

PdCl2 + CO + H2O → Pd + CO2 + 2 HCl

Dal cloruro di platino, per trattamento con nitrato di potassio, si ottiene l’ossido di platino (II) secondo la reazione:

2 PdCl2 + 4 KNO3 →2  PdO + 4 KCl +4  NO2 + O2

L’ossido di platino viene utilizzato quale catalizzatore in molte sintesi organiche tra cui l’idrogenazione catalitica.

Il palladio viene utilizzato nei convertitori catalitici specie nelle autovetture diesel e trova impiego quale catalizzatore in numerose reazioni di idrogenazione, deidrogenazione, ossidazione e idrolisi e nella produzione di acetato di vinile monomero di partenza del polivinilacetato. Il cloruro di palladio viene impiegato quale catalizzatore omogeneo in molti processi industriali tra cui l’ossidazione dell’etilene ad acetaldeide nel processo Wacker.

Il palladio viene usato nelle candele per motori aeronautici, in leghe per usi odontoiatrici e per oggetti preziosi, per la fabbricazione di alcuni orologi, nella fabbricazione di alcuni strumenti chirurgici e di contatti elettrici.

Il palladio costituisce l’elettrodo nei misuratori di glucosio presente nel sangue: nella striscetta è contenuta la glucosio ossidasi che ossida il glucosio provocando la riduzione dell’esacianoferrato (III) di potassio. Applicando una tensione al misuratore, in presenza dell’elettrodo di palladio, l’esacianoferrato(II) viene riossidato provocando un flusso di elettroni direttamente proporzionale alla concentrazione di glucosio presente nel campione e quindi misurabile.

Nei tempi più recenti si sta approfondendo la chimica dei complessi del palladio per la terapia adiuvante del cancro. Alcuni farmaci come il cisplatino hanno diversi svantaggi tra cui effetti collaterali, limitata solubilità in mezzi acquosi, tossicità, scarsa selettività e spesso non efficaci in alcuni tipi di tumore. Si è quindi proceduto più che a modificare la molecola antitumorale a cambiare lo ione metallico centrale e, per l’analogia strutturale con il platino, è stato individuato il palladio e sembra che i risultati siano incoraggianti.

 


Olio al tartufo

I tartufi sono funghi dal corpo fruttifero ipogeo ovvero crescono sotto terra vicino alle radici di alcuni alberi con i quali hanno un rapporto simbiotico.
Da sempre apprezzato troneggia sulle mense dei ricchi per la sua caratteristica di conferire un aroma inconfondibile: il suo prezzo proibitivo lo rende infatti accessibile solo a pochi.
L’Italia è uno dei maggiori produttori di tartufi nel mondo dove si possono trovare sia il raro e costosissimo tartufo bianco il cui prezzo può arrivare a 450 euro l’etto che il tartufo nero relativamente più economico.
Quando il tartufo è maturo si sviluppa il tipico odore penetrante con lo scopo di attirare animali selvatici per spargere le spore e garantire la conservazione della specie.
Per la ricerca dei tartufi vengono impiegati i cani da tartufo appositamente addestrati che possono costare fino a 2500 euro.
Il tartufo bianco tipico della zona di Alba contiene oltre cento tipi diversi di molecole dotate di un certo aroma, ma l’odore preminente è dovuto al 2,4-ditiopentano molecola presente sia pure in minor misura in formaggi a pasta molle e crosta fiorita come il camembert.
Il 2,4-ditiopentano CH3-S-CH2-S-CH3 sostanza liquida, non solubile in acqua caratterizzata da un forte odore appartenente agli organosolfuri.
Stante domanda mondiale di tartufo da molti anni si trovano sugli scaffali dei negozi che vendono specialità gastronomiche confezioni accattivanti di olio di tartufo a prezzi variabili.
In realtà il costo dipende essenzialmente dal tipo e dalla qualità di olio utilizzato ma non dal tartufo perché, in realtà l’olio di tartufo, tranne rare eccezioni, che un profano potrebbe ritenere essere olio aromatizzato con oli essenziali di tartufo, il tartufo non l’ha mai visto.
L’olio al tartufo o aromatizzato al tartufo infatti nella gran parte dei casi ha in comune solo il 2,4-ditiopentano ottenuto sinteticamente. Solo pochi produttori, infatti, indicano nella ricetta il contenuto di tartufo mentre nella gran parte dei casi l’indicazione è quella di olio aromatizzato al gusto di tartufo contenente olio extra vergine di oliva all’aroma di tartufo.
Il 2,4-ditiopentano è infatti ottenibile sinteticamente per reazione del metantiolo noto anche come metilmercaptano con formula CH3SH e formaldeide H2C=O:

2 CH3SH + H2C=O → CH3-S-CH2-S-CH3 + H2O

Il metantiolo è un gas incolore dall’odore nauseabondo simile a quello del cavolo marcio responsabile dell’alitosi e dell’odore dei piedi mentre la formaldeide è una sostanza tossica usata un tempo per sconfiggere i tarli del legno ma caduta in disuso per la sua pericolosità.
Ma la chimica è la scienza delle trasformazioni quindi dalla reazione di queste due sostanze se ne ottiene un’altra che ovviamente non è tossica ed è la stessa contenuta nel tartufo.
Per un chimico una sostanza è tale a prescindere se sia di origine sintetica o naturale, ma una maggiore informazione sulla reale composizione di questi oli sarebbe necessaria. Occhio quindi all’etichetta e se si desidera che l’olio sia aromatizzato al tartufo è necessario che sia indicato espressamente che contiene tartufo e non l’aroma di tartufo.

Standardizzazione di una soluzione di AgNO3

Le soluzioni di nitrato di argento a titolo noto vengono largamente usate per l’analisi chimica quantitativa e in particolare nell’ambito delle titolazioni argentometriche per la determinazione dei cloruri tramite il metodo di Mohr e il metodo di Volhard.

Il nitrato di argento non è una standard primario sia perché è sensibile alla luce sia perché lo ione argento ridursi ad argento metallico.

Per standardizzare una soluzione di AgNO3 è necessario innanzi tutto preparare una soluzione a titolo approssimato. Si supponga che la soluzione desiderata debba essere 0.1 M e che abbia volume di 0.500 L; si devono pesare quindi 0.1 mol/L ∙ 0.500 L = 0.0500 moli di AgNO3 corrispondenti a 0.0500  mol ∙ 169.87 g/mol = 8.5 g circa di nitrato di argento.

Solubilizzare il nitrato di argento pesato e travasare in un matraccio da 500 mL aggiungendo acqua distillata portando a volume.

Questa soluzione avente titolo approssimato 0.1 M viene standardizzata con NaCl. Il cloruro di sodio viene messo in stufa in modo che venga eliminata eventuale acqua di cristallizzazione fino a costanza di peso.

Si prepara una soluzione a titolo noto di NaCl; per preparare 250 mL di NaCl 0.1 M occorrono 0.250 L ∙ 0.1 mol/L = 0.0250 moli corrispondenti a 0.0250 ∙ 58.44 g/mol = 1.46 g

Dopo aver pesato con accuratezza il cloruro di sodio che costituisce lo standard primario si diluisce con acqua distillata e si porta a volume in un matraccio da 250 mL.

Un volume pari a 25 mL di questa soluzione vengono messi in una beuta da 250 mL e si diluisce con acqua distillata fino a circa 100 mL. Si aggiunge 1 mL di una soluzione di cromato di potassio al 5% come indicatore e si titola con il nitrato di argento fino al viraggio da bianco giallastro a un colore rosso mattone.

Calcoli:

Si supponga che siano stati pesati 1.470 g di NaCl corrispondenti a 1.470 g/58.44 g/mol=0.02515 moli

La concentrazione di NaCl è quindi 0.02515 g/ 0.250 L = 0.1006 M

Moli di NaCl in 25 mL = 0.0250 L ∙ 0.1006 M = 0.002515

Si supponga che il volume di nitrato di argento necessario per raggiungere il punto finale sia di 24.6 mL allora ciò implica che la molarità di AgNO3 è pari a 0.002515 mol/ 0.0246 L= 0.102 M

Si rammenta che è necessario effettuare almeno 3 titolazioni e determinare il titolo facendo una media.

Se una goccia di nitrato di argento finisse sul camice accidentalmente rassegnatevi perché non andrà più via mentre se finisce sulla pelle aspettate la naturale rigenerazione cellulare.

L’albero di Diana

Oliver Sacks è stato un neurologo d’eccezione che ha divulgato attraverso i suoi scritti le esperienze con i propri pazienti riuscendo a coinvolgere il grande pubblico non esperto in una materia così complessa.

Il primo amore di Sacks, tuttavia, fu la chimica per la quale ebbe un enorme interesse e scrisse un libro autobiografico famoso intitolato Zio Tungsteno. Ricordi di un’infanzia chimica a cui associa i ricordi della sua infanzia.

In un capitolo di questo libro mirabile egli racconta di come sia riuscito, nell’ambito delle sue esperienze a riprodurre gli “alberi” metallici di cui parlano gli alchimisti.

L’albero di Diana, detto anche albero dei filosofi, è un deposito di argento che assume forma di tipo dendritico ovvero una struttura tipica dei metalli costituiti da cristalli che assumono particolari direzioni cristallografiche.

A causa della consuetudine di associare i metalli alle divinità o ai pianeti poiché all’argento veniva associata Diana questo deposito di argento a forma di albero venne detto albero di Diana.

L’albero di Diana nato dagli esperimenti che gli alchimisti erano usi fare e che appare come una sorta di vegetazione dall’impatto misterioso su cui aleggia qualcosa di magico è dovuto semplicemente a una reazione di ossidoriduzione.

In una reazione di ossidoriduzione una specie si ossida ovvero perde elettroni e un’altra si riduce ovvero acquista elettroni quindi la reazione è costituita da due semireazioni di cui una di ossidazione e una di riduzione.

Ad ogni semireazione di riduzione è associato un potenziale di riduzione determinato sperimentalmente rispetto alla semireazione di riduzione 2 H+ + 2 e⇌ H2 per la quale per convenzione detto potenziale viene assunto pari a 0.00 V a 25°C.

A ciascuna semireazione di ossidazione è associato un potenziale uguale in modulo, ma con il segno opposto, rispetto a quello associato alla semireazione di riduzione.

Una reazione di ossidoriduzione può avvenire spontaneamente se la somma dei potenziali di ossidazione e di riduzione è positiva.

Gli alchimisti ovviamente non conoscevano i potenziali di riduzione ma notarono che ponendo l’argento in acido nitrico, dopo aver diluito la soluzione e messo un po’ di mercurio dopo un tempo di circa 40 giorni si formava l’albero di Diana.

Essi non sapevano che l’argento metallico diventava ione argento per la reazione di ossido-riduzione:

Ag + 2 HNO3 → AgNO3 + NO2 + H2O

e che tale reazione era spontanea visti i potenziali di riduzione delle specie coinvolte ma sapevano bene che l’argento che non si dissolve in acidi forti come HCl si dissolveva nell’acqua forte, antico nome dell’acido nitrico.

Non si sa se gli alchimisti conoscessero che la reazione per la quale si forma l’albero di Diana è:

2 Ag+ + Hg → 2 Ag + Hg2+

ma è certo che la loro dedizione e il loro amore per la sperimentazione ha costituito la rampa di lancio dalla quale potesse decollare una disciplina affascinante e coinvolgente come la chimica.

Se si vuole realizzare in laboratorio l’albero di Diana si può optare per un’altra reazione sia per ridurre i tempi ma soprattutto per la tossicità del mercurio.

Basta porre infatti un filo di rame in una soluzione di nitrato di argento e anche in questo caso, grazie al trasferimento di elettroni avviene la formazione di argento metallico secondo la reazione:

2 Ag+ + Cu → 2 Ag + Cu2+

La presenza dello ione rame in soluzione è evidenziata dal colore azzurro sempre più intenso che la soluzione assume man mano che si forma nel corso della reazione.

Gravimetria per volatilizzazione

Le tecniche gravimetriche per la determinazione quantitativa di un analita sono le più antiche e includono tutti i processi in cui viene misurata una massa o una variazione di massa.

Tra le tecniche gravimetriche vi sono quelle per precipitazione che, sebbene garantiscano risultati affidabili, sono state in parte superate in quanto richiedono tempi lunghi e una grande manualità ed esperienza.

Nell’ambito delle tecniche gravimetriche vi è la gravimetria per volatilizzazione in cui la specie da analizzare viene sottoposta a decomposizione termica o chimica misurando la variazione della sua massa o, in alternativa, raccogliendo e pesando il prodotto della decomposizione.

Per potersi avvalere della gravimetria per volatilizzazione è necessario conoscere i prodotti della reazione di decomposizione, ma mentre ciò non costituisce un problema per i composti organici che abitualmente danno luogo alla formazione di molecole semplici come CO2, H2O e N2, per i composti inorganici i prodotti dipendono frequentemente dalla temperatura di decomposizione.

Un metodo per la determinazione dei prodotti di una decomposizione termica consiste nel seguire la massa della specie in funzione della temperatura tramite un’analisi termogravimetrica.

Contrariamente alla gravimetria per precipitazione che viene usata raramente come metodo di analisi, la gravimetria per volatilizzazione riveste un ruolo importante in diversi tipi di analisi chimiche come, ad esempio, la determinazione della quantità di sostanze inorganiche presenti in un materiale organico.

L’applicazione più importante della gravimetria per volatilizzazione è costituita dall’analisi elementare di composti organici.

Ad esempio dalla combustione completa di un idrocarburo si ottengono biossido di carbonio e vapore acqueo. Facendo passare i prodotti della combustione attraverso tubi prepesati contenenti adsorbenti selettivi e misurando l’aumento della massa si ottiene la massa del carbonio e dell’idrogeno presenti nell’idrocarburo di partenza.

I metalli alcalino-terrosi presenti nei materiali organici possono essere determinati aggiungendo acido solforico prima si sottoporre il campione alla combustione. Il metallo rimane come residuo solido di solfato metallico dopo la combustione.

Gli altri metalli possono essere determinati aggiungendo acido nitrico prima della combustione del materiale organico a seguito della quale rimane come residuo solido l’ossido del metallo.

Un esempio tipico di come la gravimetria per volatilizzazione possa essere sfruttata è la determinazione del carbonato acido presente in un campione come una compressa antiacido.

Il campione viene pestato e dopo essere stato pesato viene trattato con acido solforico che trasforma il carbonato acido in biossido di carbonio secondo la reazione:

NaHCO3 + H2SO4 → CO2 + H2O + NaHSO4

Il biossido di carbonio viene convogliato in un tubo prepesato contenente idrossido di sodio che reagisce con il biossido di carbonio formando carbonato di sodio secondo la reazione:

CO2 + 2 NaOH → Na2CO3 + H2O

La differenza della massa del tubo prima e dopo il passaggio di CO2 costituisce la massa di carbonato di sodio formatosi.

Supponiamo che la massa di carbonato di sodio sia di 0.630 g corrispondenti a 0.630 g/105.9888 g/mol= 0.00594 moli

Poiché il rapporto stechiometrico tra carbonato di sodio e biossido di carbonio è di 1:1 e il rapporto tra biossido di carbonio e carbonato acido di sodio è anch’esso di 1:1 le moli di carbonato acido di sodio sono pari a 0.00594 corrispondenti a 0.00594 mol ∙ 84.007 g/mol= 0.499 g = 499 mg

Il serpente del faraone

Una reazione chimica coinvolge la trasformazione di uno o più reagenti in prodotti di reazione attraverso la rottura di legami e la formazione di altri.

Non sempre le reazioni chimiche sono visibili ma spesso si possono avere degli indizi per poter riconoscere che una reazione è avvenuta come ad esempio la formazione di un precipitato, il cambiamento di colore o lo sviluppo di un gas.

Tra le infinite reazioni chimiche ve ne sono alcune che, per la loro peculiarità, accostano una semplice trasformazione a qualcosa di magico e di imperscrutabile.

Tra queste reazioni vi è quella che porta alla formazione del cosiddetto serpente del faraone.

Premesso che per la realizzazione di questa reazione si fa uso di un reagente molto tossico e che anche i prodotti sono tossici è necessario non solo che sia un chimico ad effettuarla ma che si disponga di un laboratorio munito di cappa aspirante.

Il composto di partenza è il tiocianato di mercurio (II) solido di colore bianco ottenibile dalla reazione tra nitrato di mercurio (II) e tiocianato di potassio secondo la reazione:

Hg(NO3)2 + 2 KSCN → Hg(SCN)2 + 2 KNO3

La combustione del tiocianato di mercurio ne provoca la decomposizione portando alla formazione iniziale di una sostanza scura costituita da nitruro di carbonio che si ottiene dalla reazione:

2 Hg(SCN)2 → 2 HgS + CS2 + C3N4

Tutti i prodotti della reazione subiscono a loro volta una ulteriore trasformazione.

Il solfuro di carbonio è infiammabile e, reagendo con l’ossigeno, dà luogo alla formazione di biossido di carbonio e biossido di zolfo:

CS2 + 3 O2 → CO2 + 2 SO2

Il nitruro di carbonio si decompone in parte in azoto gassoso e in cianogeno gas dall’odore pungente e altamente tossico:

2 C3N4 → 3 (CN)2 + N2

Il solfuro di mercurio (II) reagisce con l’ossigeno per dare vapori di mercurio metallico e biossido di zolfo:

HgS + O2 → Hg +  SO2

A seguito di questa reazione si forma una protuberanza che ricorda la forma di un serpente. La reazione può essere condotta anche con altri reagenti non nocivi ma l’effetto è molto meno plateale e coreografico.

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