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Gallio

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Prima della sua scoperta avvenuta nel 1875 ad opera del chimico francese Paul-Émile Lecoq de Boisbaudran nell’ambito dei suoi studi che diedero origine allo sviluppo alla spettroscopia le proprietà del gallio erano già note.

La scoperta di tale elemento, a cui lo scienziato francese diede il nome di gallio in onore della Gallia nome latino della Francia, rappresentò la prima conferma sperimentale di quanto aveva predetto Dimitri Mendeleev che aveva predetto le caratteristiche di questo elemento a cui aveva dato il nome di eka-alluminio.

Il padre della Chimica, infatti, nella composizione della Tavola periodica degli elementi aveva notato che nessuno degli elementi noti fino a quel momento rispondeva alle proprietà prevedibili sulla base della periodicità da lui ipotizzata. Pertanto lasciò alcune caselle vuote prevedendo le proprietà di quegli elementi non ancora conosciuti e lasciando ai chimici di riempirle dopo che fossero stati scoperti.

Lecoq de Boisbaudran aveva studiato per oltre un decennio gli spettri atomici degli elementi chimici che presentano una propria serie di linee spettrali e sapeva che l’elemento mancante si trovava tra l’alluminio e l’indio nell’ambito del gruppo e doveva trovarsi dopo lo zinco nell’ambito del periodo.

Con geniale intuizione ritenne che tale elemento potesse essere rinvenuto nei minerali contenenti zinco e approfondì le sue ricerche sulla sfalerite detta anche blenda proveniente dai Pirenei.

Isolò il nuovo elemento dall’elettrolisi di un suo idrossido e ne studiò le linee spettrali ottenendo uno spettro diverso da quello degli altri elementi che presentava due linee caratteristiche viola di cui una stretta e ben visibile alla lunghezza d’onda di circa 417 nm. Così le caselle rimaste vuote da Mendeleev iniziarono a riempirsi.

Il gallio non si trova allo stato nativo ma nei minerali come la blenda, la pirite, la bauxite e la germanite; si trova in alte concentrazioni nella gallite sotto forma di CuGaS2 ma tale minerale è raro e viene rinvenuto in poche località.

Il gallio è un elemento appartenente al Gruppo 3A o Gruppo 13 della Tavola periodica insieme a boro, alluminio, indio e tallio: è di color bianco argenteo, molto tenero da poter essere tagliato con un coltello ed ha una temperatura di fusione di circa 30°C quindi si presenta liquido a una temperatura di poco superiore a quella ambiente.

Il numero di ossidazione più comune del gallio è +3 ma esso può avere anche numero di ossidazione +1.

Si tenderebbe a ritenere che il gallio abbia anche numero di ossidazione +2 come nel cloruro di gallio avente formula GaCl2. Tuttavia i dialogenuri contengono gallio sotto forma di Ga+ e Ga3+ in rapporto 1:1 e possono essere formulati come Ga(I)Ga(III)X4. Tra gli alogenuri di gallio solo il fluoruro è ionico mentre gli altri alogenuri si presentano in forma dimerica Ga2X6.

Come l’alluminio, il gallio tende a ossidarsi all’aria formando un film sottile di ossido che passiva il metallo rendendolo stabile. Bruciando il gallio all’aria si ottiene l’ossido di gallio Ga2O3 che può essere ridotto, in presenza di idrogeno a ossido di gallio (I):
Ga2O3 + H2 → Ga2O + 2 H2O

L’ ossido di gallio è un energico riducente capace di ridurre l’acido solforico ad acido solfidrico:

2 Ga2O + H2SO4 → 2 Ga2O3 + H2S

Il gallio reagisce con gli acidi minerali secondo la reazione:

2 Ga +6 HCl → 2 GaCl3 +3 H2

In ambiente alcalino il gallio reagisce con l’idrossido di sodio per dare il tetraidrosso gallato e idrogeno:

2 Ga + 2 NaOH + 6 H2O → 2 Na[Ga(OH)4] + 3 H2

Il gallio, come gli altri elementi appartenenti al gruppo 13 reagisce con gli elementi del gruppo 15 per formare composti quali in nitruro di gallio e l’arseniuro di gallio.

Il gallio forma l’idruro GaH3  detto gallano ottenuto dalla reazione tra gallanato di litio e cloruro di gallio:

3 LiGaH4 + GaCl3 → 3 LiCl + 4 GaH3

Se la reazione avviene in presenza del dimetiletere quale solvente il gallano polimerizza mentre se la reazione avviene in assenza di solvente si forma una struttura dimera Ga2H6 detta digallano che ha una struttura simile al diborano.

Circa il 95% del gallio prodotto viene utilizzato per ottenere l’arseniuro di gallio che è un semiconduttore usato in dispositivi come circuiti integrati ad altissima frequenza (microonde), diodi emettitori di luce infrarossa, diodi laser, celle solari, e nelle optical windows.

Le prospettive future dell’arseniuro di gallio sono nell’ambito dell’elettronica andando a supportare, o talvolta sostituire il silicio.

Il gallio forma molto facilmente leghe con altri metalli, e si usa come componente di leghe a basso punto di fusione.

Il gallio trova impiego negli ambiti sia diagnostico che terapeutico: gli isotopi 67Ga e 72Ga vengono usati come marcatori radioattivi nella diagnosi di alcune forme tumorali e in lega con l’argento e lo stagno, può sostituire l’amalgama in odontoiatria.


Dimetiletere

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Il dimetiletere (DME) il cui nome I.U.P.A.C. è metossimetano è il più semplice degli eteri ed ha formula CH3OCH3. E’ un gas incolore solubile in acqua con un’elevata tensione di vapore e può essere liquefatto a pressioni relativamente basse: contrariamente all’etanolo, isomero del dimetiletere, che per la presenza di legami a ponte di idrogeno, il dimetiletere ha una temperatura di ebollizione notevolmente inferiore e pari a – 24.8°C.

Le sue proprietà fisiche sono simili a quelle del propano e del butano. Il potere calorifico del dimetiletere è di 28.9 ∙ 106 J/Kg che è solo il 65% rispetto al potere calorifico del propano ma, a causa della minore densità del dimetiletere rispetto al propano, un contenitore di pari volume può immagazzinare una energia pari all’85% di quella del propano.

Il dimetiletere viene usato nell’industria come intermedio per la sintesi di altri composti organici, come catalizzatore nei processi di polimerizzazione e come propellente di molti prodotti tra cui adesivi, sigillanti, lacca per capelli e prodotti usati in agricoltura. Il dimetiletere viene usato in molte sintesi organiche come solvente.

Può essere sintetizzato per disidratazione del metanolo secondo la reazione esotermica:

2 CH3OH → CH3OCH3 + H2O

o per idrogenazione del monossido di carbonio:

3 CO + 3 H2 → CH3OCH3 + CO2

3 CO + 4 H2 → CH3OCH3 +H2O

La pirolisi del dimetiletere effettuata a una temperatura superiore a 500°C dà luogo alla formazione di metano e formaldeide; quest’ultima si decompone successivamente in metano, monossido di carbonio e idrogeno secondo le reazione:

CH3OCH3 → CH4 + HCHO → CH4 + CO + H2

Il dimetiletere ha un elevato numero di cetani e può essere considerato come alternativo al diesel pertanto sono stati condotti studi relativi alla pirolisi e alla pirolisi ossidativa del composto. La decomposizione è di tipo radicalico e l’iniziazione prevede la formazione di due radicali:

CH3OCH3 → CH3∙ + CH3O∙

In presenza di ossigeno si formano altri radicali dalla reazione:

CH3OCH+ O2 → CH3OCH2  + OOH∙

Tra le reazioni di propagazione vi sono le seguenti:

CH3OCH3 + CH3∙ → CH4 + CH3OCH2 

CH3OCH2  → HCHO + CH3

CH3OCH2  → CH4 + CHO∙

CHO∙ → CO + H∙

CH3O∙ → HCHO + H∙

CH3O∙ → HCO∙ + H2

CH3OCH+ H∙ → H2 + CH3OCH2

Le reazioni di terminazione sono:

CH3∙ + H∙ → CH4

HCO∙ + H∙ → HCHO

HCHO∙ + CH3∙ →  CH4 + CO

Con le sempre crescenti preoccupazioni in materia di inquinamento ambientale, di sicurezza energetica e le incognite sulle future forniture di petrolio, la comunità internazionale sta cercando di carburanti alternativi non a base di petrolio e tecnologie energetiche più avanzate come, ad esempio, le celle a combustibile per aumentare l’efficienza del consumo energetico. Rispetto ad altri combustibili il dimetiletere sembra quello più accreditato a sostituire gli altri combustibili anche per la possibilità di sintetizzarlo dalle biomasse.

Il dimetiletere può essere usato come carburante per motori ad accensione con una riduzione di emissione di  NOx, SOx, e particolato,  non è tossico e può essere trasportato in contenitori a pressioni relativamente basse.

Potere calorifico

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I combustibili sono sostanze solide, liquide o gassose che sono in grado di produrre energia termica a seguito di una reazione di combustione.

Tale reazione di ossidoriduzione è quindi di tipo esotermico ed avviene in presenza di ossigeno con sviluppo di gas. Poiché i combustibili tradizionali, che a loro volta vengono suddivisi in naturali e artificiali, contengono generalmente idrogeno e ossigeno, danno luogo alla formazione di CO2 e di H2O se la combustione avviene in eccesso di ossigeno ovvero se la combustione è completa.

Il potere calorifico di un combustibile è la quantità massima di energia che può essere ottenuta dalla combustione completa di una quantità unitaria di combustibile in condizioni standard e può essere misurato tramite una bomba calorimetrica detta anche bomba di Mahler adatta a combustibili solidi o tramite il calorimetro di Junkers adatto a combustibili gassosi.

Nel caso che il combustibile sia solido o liquido il quantitativo unitario è generalmente riferito alla massa e quindi il potere calorifico viene generalmente espresso in J/Kg; se il combustibile è gassoso il quantitativo unitario è generalmente riferito al volume e quindi il potere calorifico viene espresso generalmente in J/m3. Si distinguono due tipi di potere calorifico: il potere calorifico superiore HHV e il potere calorifico inferiore LHV.

Il potere calorifico superiore viene determinato portando tutti i prodotti della combustione alla temperatura originaria prima della combustione con conseguente condensazione del vapore prodotto. Ciò corrisponde al calore di combustione in quanto la variazione di entalpia è relativa alla temperatura dei composti prima e dopo la combustione: in tal caso il vapore acqueo prodotto dalla combustione viene condensato in un liquido, quindi cedendo il suo calore latente di vaporizzazione. Pertanto se non viene recuperato il calore di condensazione dell’acqua il calore generato diminuisce.

Il potere calorifico inferiore viene determinato sottraendo al calore specifico superiore il calore di vaporizzazione dell’acqua formatosi durante la combustione.

Pertanto il potere calorifico inferiore è uguale alla differenza tra il potere calorifico superiore e circa 2300 kJ per ogni chilogrammo di acqua formatasi.

Poiché l’idrogeno ha un potere calorifico maggiore rispetto al carbonio il potere calorifico di un combustibile aumenta all’aumentare del contenuto percentuale di idrogeno.

I combustibili gassosi hanno generalmente un potere calorifico maggiore rispetto a quelli solidi ma, sebbene l’idrogeno abbia un elevato potere calorifico, a causa della sua bassa densità il calore sviluppato per unità di volume è piuttosto bassa.

Il potere calorifico può anche essere calcolato dalle entalpia di formazione. Ad esempio sapendo che le entalpie di formazione dell’acetilene, dell’anidride carbonica e dell’acqua si può conoscere l’entalpia della combustione dell’acetilene ovvero il calore generato dalla reazione.

ΔH°C2H2(g) = 226.73 kJ/mol

ΔH°CO2(g) = – 393.5 kJ/mol

ΔH°H2O(l) = – 285.8 kJ/mol

Per la reazione:

C2H2(g) + 5/2 O2(g) → 2 CO2(g) + H2O(l)

Poiché ΔH°= Σ ΔH°prodotti – ΔH°reagenti si ha:

ΔH°= 2( – 393.5) + (- 285.8) – 226.73 = – 1390.5 kJ

Il calore di combustione di 1 mole di benzene è quindi pari a 1390.5 kJ

Effetti di una sbornia

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L’abuso di bevande alcoliche, spesso assunte dai giovani in discoteca viene avvertito come un peccato veniale su cui si può chiudere un occhio ed è ritenuto una trasgressione che non comporta assuefazione e dipendenza sicuramente meno nocivo dell’uso delle droghe leggere.

Invece sono tanti i giovani e i giovanissimi che hanno problemi nell’uso eccessivo di superalcolici che a volte si conclude con un ricovero ospedaliero e, in casi estremi con il coma etilico.

Difficoltà motorie, di eloquio, tempi di reazione rallentati, compromissione della memoria: sono tutti evidenti effetti dell’alcol sul cervello.

Alcuni di questi deficit sono già rilevabili dopo uno o due bicchieri, e si risolvono rapidamente non appena si interrompe l’uso di alcol. Tuttavia, in alcuni soggetti che bevono molto e per lungo tempo, tali deficit possono permanere anche una volta raggiunta la sobrietà.

Bere in modo sconsiderato mette le persone a rischio di gravi conseguenze per la salute tra cui alcolismo, danni al fegato, malattie cardiovascolari, disturbi psichici e vari tipi di cancro.

Vi sono individui che sembrano reggere meglio l’alcol di altri ed in realtà le ricerche dimostrano che il metabolismo dell’alcol è regolato da fattori genetici otre che dallo stato di salute generale dell’individuo.

L’alcol ingerito viene minimamente espulso tramite le urine o il sudore ma la parte rimanente la cui quantità varia dal 92 al 98% viene metabolizzata attraverso un processo enzimatico.

L’alcol etilico viene convertito nel fegato in acetaldeide ad opera dell’enzima alcol deidrogenasi (ADH) .

L’acetaldeide è una sostanza cancerogena ed è responsabile di molti dei malesseri associati all’abuso di alcol.

Sebbene l’acetaldeide vada incontro a una successiva reazione di ossidazione può causare danni al fegato dove avviene in prevalenza il metabolismo dell’alcol ma poiché il metabolismo avviene anche in altri tessuti si possono avere danno al pancreas, al cervello e nel tratto gastrointestinale.

La semireazione di ossidazione dell’alcol etilico in acetaldeide:

CH3CH2OH → CH3CHO + 2 H+ + 2 e-

comporta il rilascio di due ioni H+ che vengono catturati dall’NAD+ che si trasforma in NADH secondo la semireazione di riduzione:

NAD+ = NaDH

Nel metabolismo dell’etanolo possono intervenire altri enzimi: il citocromo P450 2E1 che si attiva nei bevitori cronici quando la quantità di alcol ingerita è elevata e la catalasi che esercita la sua azione nel cervello.

L’acetaldeide rilasciata nel cervello dal metabolismo dell’alcol da parte della catalasi ha il potenziale per combinarsi con i neurotrasmettitori per formare nuovi composti noti come THIQs ovvero tetraidroisochinoline sostanze oppio-simili capaci di occupare i recettori oppioidi.

Questa rilevazione rende ragione delle risposte neuroendocrine e comportamentali sovrapponibili, riscontrabili nei consumatori di oppiacei che secondo alcuni ricercatori, sarebbe la causa della dipendenza dall’alcol.

L’acetaldeide viene poi ossidata ad acido carbossilico ad opera dell’enzima aldeide deidrogenasi ALDHs; in particolare l’ossidazione dell’acetaldeide segue due strade: una piccola frazione viene ossidata viene ossidata nel citosol delle cellule epatiche ad opera dell’enzima ALDH1 mentre la quantità maggiore di acetaldeide viene ossidata nei mitocondri ad opera dell’enzima ALDH2.

La reazione complessiva catalizzata enzimaticamente è:

CH3CHO + NAD+ + H2O → CH3COOH + NADH + H+

L’intero processo può quindi essere così schematizzato:

intero processo

L’acido acetico, in equilibrio con la sua base coniugata, vengono ossidati a biossido di carbonio.

Vi sono fattori genetici che influenzano il metabolismo dell’alcol ed in particolare la carenza dell’aldeide deidrogenasi; in particolare le popolazioni asiatiche sono portatrici di una mutazione genetica dell’enzima che risulta essere inattivo con il conseguente accumula di acetaldeide ottenuta dal metabolismo dell’alcol anche dopo l’assunzione di un solo bicchiere di vino.

Vetri colorati

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Secondo la tradizione si vuole che siano stati dei mercanti Fenici a scoprire per primi il vetro. Essi infatti trasportavano un carico di carbonato di sodio e si accamparono sulle rive del fiume Belo dove accesero dei fuochi. Fu con molto stupore che l’indomani trovarono al posto della sabbia del fiume una sostanza lucente e trasparente che si era formata dal riscaldamento della silice contenuta nella sabbia il cui punto di fusione si era abbassato grazie alla presenza del carbonato di sodio che agisce da fondente.

Da allora si affinarono le tecniche di produzione e di lavorazione del vetro, che veniva spesso colorato per filtrare la luce in modo mirabile, fino a culminare con le inestimabili vetrate fatte con mosaici di vetro colorato, spesso a soggetto religioso, che adornavano le Chiese.

 L’aggiunta di metalli, di ossidi metallici e di sali ha portato all’ottenimento di vetri sempre più raffinati e dalle sfumature sempre più variegate.

Tra i vetri colorati si annovera per la sua nuance il vetro color rosso rubino ottenuto con sali  di oro con cui l’artista Fredrich Egermann realizzò manufatti  di grande importanza ottenendo numerosi riconoscimenti.

Un altro vetro che mostra particolari caratteristiche è quello all’uranio che, esposto a radiazione UV, è fosforescente. E’ costituito in genere da uranati U2O72- o da ossidi di uranio e, a seconda del numero di ossidazione dell’uranio e dalla sua concentrazione assume un colore che va dal giallo al verde.

Effetti speciali possono essere ottenuti creando il vetro iridescente ricoprendo il vetro caldo con metalli o composti metallici allo stato fuso in modo da ricoprirne la superficie: l’ossido di oro conferisce il colore rosso rubino, l’argento una colorazione gialla, il rame una colorazione verde e il platino crea ombre argentate. Vengono riportati in tabella alcuni dei composti maggiormente usati che conferiscono particolari colorazioni al vetro:

 

Composto Colore
Solfuro di cadmio CdS Giallo
Cloruro di oro (III) AuCl3 Rosso
Ossidi di cobalto Blu-violetto
Biossido di manganese MnO2 Porpora
Ossido di nichel NiO violetto
Zolfo Giallo ambrato
Ossido di cromo (III) Cr2O3 Verde smeraldo
Ossido di uranio (IV) UO2 Fluorescente giallo o verde
Ossidi di ferro Verde e marrone
Composti contenenti rame Blu, verde e rosso
Composti contenenti stagno Bianco
Composti contenenti piombo Giallo

 

 

 

Acidi forti

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Secondo Arrhenius gli acidi sono quelle specie in grado di liberare ioni H+ in soluzione mentre secondo Brönsted-Lowry gli acidi sono quelle specie donatrici di protoni. La maggior parte degli acidi che possono essere considerati acidi di Arrhenius sono anche acidi mentre secondo Brönsted-Lowry.

Nonostante appartengano alla categoria di acidi molti composti sia inorganici che organici, gli acidi forti, ovvero quelli che possono essere considerati dissociati al 100% sono relativamente pochi se paragonati agli acidi deboli che sono in quantità notevolmente superiore.

Gli acidi forti sono caratterizzati da una costante di equilibrio Ka molto elevata e, se sono molto concentrati, hanno un pH inferiore a zero. Ad esempio l’acido cloridrico che è un acido forte, la cui costante è dell’ordine di 106, se ha una concentrazione superiore a 1 M ha un pH minore di zero. Il pH infatti è definito come:

pH = – log [H+] e, se [H+] è maggire di 1 come ad esempio 1.5 si ha che pH = – log 1.5 = – 1.8.

Per gli acidi la concentrazione di ioni H+ coincide con la concentrazione dell’acido.

Ad esempio per HCl la cui dissociazione in acqua può essere scritta come:

HCl + H2O → H3O+ + Cl-

Se la concentrazione di HCl è 0.10 molare allora [H3O+] = 0.10 e quindi pH = 1.0

Si riportano in tabella gli acidi forti secondo l’ordine di acidità decrescente:

Nome Formula Ionizzazione Ka
Acido perclorico HClO4 H3O+ + ClO4- 1010
Acido iodidrico HI H3O+  + I- 109.3
Acido bromidrico HBr H3O+  + Br- 108.7
Acido cloridrico HCl H3O+  + Cl- 106
Acido solforico * H2SO4 H3O+  + HSO4- 103
Acido p.toluensolfonico CH3C6H4SO3H ** H3O+  + CH3C6H4SO3- 102.8
Acido nitrico HNO3 H3O+  + NO3- 102
Acido metansolfonico CH3SO3H H3O+ + CH3SO3- 101.9

 

* Si noti che l’acido solforico è un acido diprotico che è forte solo nella prima dissociazione mentre la seconda dissociazione è regolata da una Ka dell’ordine di 10-2. Per il calcolo del pH di una soluzione di acido solforico quindi esso va considerato totalmente dissociato solo nella prima dissociazione.

** Gli acidi p-toluensolfonico e metansolfonico sono acidi organici.

I valori di pKa degli acidi forti sono minori di zero infatti pKa è definito come – log Ka e pertanto, per l’acido perclorico – log 1010 = – 10

Danni da eccesso di acido glutammico

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L’acido glutammico è un amminoacido non essenziale importante nel metabolismo come fissatore e trasportatore di ammoniaca e implicato in molti processi metabolici. L’acido glutammico è il precursore della L-glutammina che viene sintetizzata grazie all’enzima glutammina sintetasi che ne catalizza la formazione a partire da glutammato, ammoniaca ed ATP.

L’acido glutammico costituisce, con la glutammina, un sistema di trasporto e di inattivazione dell’ammoniaca e, a livello nervoso, prende parte a importanti processi di deamminazione, ossidazione e di transaminazione; interviene inoltre nella sintesi dell’acetilcolina e nei meccanismi di regolazione della permeabilità di membrana nella cellula nervosa.

Oltre ad essere un monomero necessario per l’ottenimento di proteine, l’acido glutammico è fondamentale nella trasmissione degli impulsi nervosi, ed è anche prodotto nel cervello.
Numerosi sono i benefici dell’acido glutammico in quanto rinforza il sistema immunitario, favorisce la crescita muscolare, stimola la formazione dell’ormone della crescita GH (growth hormone).  Il GH stimola la liberazione di acidi grassi dal tessuto adiposo e ne aumenta quindi la concentrazione nei liquidi corporei.
Questa azione catabolizzante può contribuire a lungo termine all’aumento della massa magra poiché esso stimola l’utilizzo dei lipidi e acetil-CoA allo scopo di produrre energia.

È un componente principale di proteine ​​e peptidi, è presente nella maggior parte dei tessuti ed è il precursore del principale neurotrasmettitore inibitorio ovvero l’acido γ-amminobutirrico noto come GABA direttamente responsabile per la regolazione del tono muscolare.

Raramente si verifica una carenza di acido glutammico in quanto esso è contenuto in moltissimi alimenti ed in particolare proteine isolate dalla soia, polvere di albume, merluzzo sotto sale, parmigiano, pecorino, mandorle, farina di soia, formaggi secchi e freschi, arachidi, noci, nocciole, carne, pollo, farinacei, gamberi, tonno, affettati e legumi. Quindi l’acido glutammico è contenuto in tutti gli alimenti ad eccezione di frutta fresca e verdure.

Una dieta equilibrata garantisce quindi a un soggetto sano il giusto apporto di acido glutammico sia perché svolge molte azioni benefiche per l’organismo che per il ruolo che riveste in molti processi fisiologici. Tuttavia la ricerca spasmodica di migliori prestazioni atletiche fa sì che molti che esercitano attività sportive anche a livello dilettantistico ne assumano dosi maggiori, sotto forma di integratori che vengono definiti integratori universali.

Spesso il “passaparola” tra coloro che frequentano palestre induce all’assunzione di dosi eccessive di acido glutammico peraltro senza controlli medici. Si tenga conto inoltre che in molti alimenti è presente il glutammato monosodico che ha una funzione aromatizzante e agisce come esaltatore di sapidità pertanto il quantitativo di acido glutammico e glutammato potrebbe essere comunque eccessivo anche se non viene ingerito tramite integratori. Sebbene a livello mondiale si discuta sui rischi correlati ad un uso eccessivo di glutammato parrebbe comunque scontato che se ne dovrebbe limitare il quantitativo.

L’acido glutammico e la sua base coniugata ovvero il glutammato sono tra i più abbondanti neurotrasmettitori in grado di conferire stimoli eccitatori. L’acido glutammico infatti stimola le cellule nervose del sistema nervoso centrale, ma l’eccessiva stimolazione causa danni neuronali che possono causare sclerosi laterali amiotrofiche e morbo di Alzheimer. La sovrattivazione dei recettori del glutammato permette l’ingresso nella cellula a un elevato numero di ioni di calcio e ciò a sua volta attiva una serie di percorsi distruttivi della struttura cellulare.

Inoltre una ingestione eccessiva e prolungata nel tempo dell’acido glutammico provoca danni epatici e renali.

Se ancora si discute sull’opportunità di aggiungere glutammato ai cibi appare inopportuno che si faccia uso, con tanta disinvoltura, di integratori a base di glutammato.

Blu egiziano: il colore della tecnologia

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I pigmenti usati nell’antichità erano prevalentemente di origine naturale e venivano ottenuti tramite la macinazione di minerali, la calcinazione o cottura di sostanze animali o vegetali seguita da rudimentali processi chimici.

Un colore che nel tempo ha avuto una storia e un ruolo particolari è senza dubbio il blu ma l’ottenimento di pigmenti blu costituiva un problema sia perché non erano ottenibili per miscelazione di altri pigmenti in quanto il blu è un colore primario nella sintesi additiva, sia perché non sono erano minerali facilmente reperibili che contenevano un’elevata quantità di sostanze che potessero costituire una fonte di pigmenti di tale colore.

Nell’antico Egitto nacque una cultura scientifica che spaziava del campo dell’architettura che si manifestò attraverso la costruzione di dighe e bacini, di case fatte di argilla e mattoni, di imbarcazioni per trovare la sua massima manifestazione nelle piramidi, al campo medico e matematico.

Ma anche nel campo della chimica, non ancora intesa come scienza, gli Egizi non erano da meno: la ricerca di un pigmento blu che fu poi denominato blu Egiziano non fu un episodio accidentale, ma il frutto di un lavoro meticoloso.

Tale pigmento, che si ritiene sia il primo pigmento artificiale, si diffuse rapidamente nel bacino del Mediterraneo dove assunse il nome di blu ceruleo e della sua preparazione troviamo tracce nel “De architectura” di Vitruvio. I resti di tale pigmento sono stati trovati, tra l’altro, sulla statua della dea Iris sul Partenone e nel famoso affresco “Stagno in un giardino” nella tomba egizia di “Scriba e contatore di grano” di Nebamun a Tebe.

Le complessità della procedura con cui tale pigmento era stato ottenuto suggerisce che gli antichi Egizi avessero una buona comprensione delle reazioni chimiche e delle problematiche ad esse connesse.

Il blu egiziano ha una composizione analoga al pigmento contenuto nella cuprorivaite, minerale, tuttavia, scarsamente diffuso. Si tratta di un doppio silicato di rame e calcio avente formula CaO·CuO·4 SiO2 ottenuto dal riscaldamento della silice, malachite contenente idrossido carbonato di rame (II) Cu2(CO3)(OH)2, carbonato di calcio e carbonato di sodio riscaldando la miscela in una fornace in condizioni riduttive.

Nella sua struttura cristallina sono presenti ioni gli ioni positivi calcio e rame legati a ioni negativi di silicato SiO42- aventi geometria tetraedrica.

Il blu egiziano è stato utilizzato  nella pittura di affreschi, tombe, statue e molti oggetti delle antiche civiltà ma anche come uno smalto conosciuto come faience egiziana. Dopo il crollo dell’Impero Romano l’uso del blu egiziano diminuì fino a scomparire quasi del tutto, ma, dopo tanti secoli d’ombra, esso è riemerso con potenzialità che i suoi inventori non avrebbero mai potuto immaginare.

Per gli storici dell’arte lo studio dei pigmenti usati dalle antiche civiltà costituisce un utile strumento per l’indicazione dell’età di un’opera, della sua autenticità e delle tecniche pittoriche oltre che per stabilire i trattamenti necessari per il restauro e la conservazione di un’opera.

Da tali ricerche effettuate sul blu egiziano è stato scoperto che esso si rompe in sottilissimi nanofogli che producono radiazioni I.R.. Queste ultime sono invisibili all’occhio umano ma l’emissione può essere registrata con una fotocamera digitale con filtri modificati che permettono di rilevare tale tipo di radiazione. Questa scoperta va al di là dell’interesse storico e culturale e apre la strada a nuovi tipi di nanomateriali utilizzabili per sistemi a fibre ottiche, immagini biomediche basate sul vicino I.R., per formulazioni di inchiostri di sicurezza e per rivelare impronte digitali latenti su superfici altamente riflettenti.

Il futuro del blu egiziano potrebbe quindi essere ancora brillante per lo sviluppo della tecnologia e per il progresso dell’umanità.


Acidi contenuti nella frutta

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La frutta contiene numerosi acidi ed infatti il pH del succo della frutta è piuttosto basso; vi sono, tuttavia, frutti che contengono più sostanze acide di altri al punto che esse vengono sfruttate come acidificanti negli alimenti.

La presenza di sostanze acide contenute nella frutta era nota fin dall’antichità e dalla loro estrazione venivano ottenuti prodotti utilizzati per ringiovanire la pelle.

Ancora oggi, sebbene con tecniche più sofisticate ed adoperando opportune miscele di acidi a diverse concentrazioni unite ad altre sostanze, si ottengono prodotti cosmetici ad azione esfoliante, levigante, anti acne e anti age, ma anche in campo dermatologico in condizioni di forfora secca e grassa, dermatite seborroica e per la cura della psoriasi.

Si tenga comunque conto che una eccessiva assunzione protratta nel tempo di succhi di frutta ed in particolare del succo di limone può portare all’erosione dentale ovvero alla perdita progressiva dei tessuti duri del dente ovvero lo smalto e la dentina.

Gli acidi prevalentemente contenuti nella frutta sono:

1)      acido citrico presente in limoni, arance, fragole, uva spina e lamponi

2)     acido malico presente nelle mele, pesche, albicocche, ciliegie, anguria e banane

3)      acido tartarico presente nell’uva, avocado e tamarindo

Altri acidi sono comunque presenti ed in particolare:

a)       l’acido succinico contenuto nelle mele, nella papaya e nei frutti di bosco

b)      l’acido benzoico presente nei mirtilli

c)       l’acido isocitrico presente nelle more

d)      l’acido chinico contenuto nelle prugne e nei kiwi

e)       l’acido ossalico presente sia pure in piccole quantità nei frutti di bosco

f)       l’acido ascorbico contenuto nelle arance, mele, ribes nero

g)      l’acido lattico presente nei mirtilli e nell’ananas

h)      l’acido glicolico presente nell’uva

Molti degli acidi contenuti nella frutta, come l’acido glicolico, l’acido lattico, l’acido malico, l’acido citrico e l’acido tartarico sono α-idrossiacidi (AHAs) ovvero acidi carbossilici in cui è presente una funzione alcolica in posizione α. Tali acidi sono maggiormente usati da soli o in associazione con altri per uso cosmetico e dermatologico a seconda della loro concentrazione. Essi agiscono indebolendo i legami intracellulari che con l’età tendono ad essere più forti e rallentano il rinnovamento della cute e la naturale esfoliazione.

Acido malico

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L’acido malico è un α-idrossiacido dicarbossilico il cui nome I.U.P.A.C. è acido 2-idrossi-1,4-butandioico isolato dal succo della mela dal chimico svedese Carl Wilhelm Scheele  nel 1785 a cui fu dato il nome di acido di mela

acido malico

Due anni più tardi il chimico francese Lavoisier propose il nome di acido malico dal latino malum che significa mela.

Nel 1834 il chimico francese Pelouze distillò l’acido malico e identificò due prodotti derivanti dalla deidratazione dell’acido malico aventi la stessa composizione ma diverse proprietà

acido maleico
Qualche anno dopo si scoprì che sia la composizione che le proprietà di tali acidi erano le stesse di un acido isolato dal chimico tedesco Winckler dalla Fumaria officinalis a cui era stato dato il nome di acido fumarico. Solo successivamente si è scoperto che l’acido maleico e l’acido fumarico erano due isomeri di tipo cis e trans e giocarono un ruolo importante nello sviluppo sella stereoisomeria che si sviluppò nell’ultima parte del XIX secolo.

Nel 1858 il chimico francese Dessaignes preparò un altro acido derivante dall’ossidazione dell’acido malico con acido cromico a cui fu dato il nome di acido malonico che è un acido bicarbossilico:

acido malonico

L’acido malico viene impiegato nell’ambito delle sintesi come intermedio della preparazione di numerosi composti quali esteri e sali, come agente chelante e tamponante e trova applicazioni come aromatizzante e acidificante degli alimenti.

I sali e gli esteri dell’acido malico sono detti malati; gli anioni malati costituiscono un intermedio nel ciclo dell’acido citrico.

L’acido malico è contenuto nell’uva e durante la fermentazione malolattica, successiva rispetto alla fermentazione alcolica, viene convertito in acido lattico e anidride carbonica:fermentazione malolattica

L’acido malico ha un carbonio chirale quindi può presentarsi nelle due forme enantiomere D e L sebbene l’acido malico che è presente nei prodotti naturali è di tipo L

D e L enantiomeri

L’acido malico, infatti, oltre che nelle mele si trova in molti altri frutti quali albicocche, prugne, fragole, ananas, papaye, arance, uva, pompelmo e lamponi e in molte verdure quali sedano, cavolfiori, carote, pomodori, piselli e mais.

L’acido malico è, insieme all’acido citrico e all’acido tartarico, uno degli acidi della frutta maggiormente presenti ed è contenuto in molti cosmetici insieme ad altre sostanze per la sua azione esfoliante, anti age e nel trattamento di pelli impure.

Irrancidimento

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L’irrancidimento è il risultato di una serie di reazioni di idrolisi e/o di ossidazione attraverso le quali gli acidi grassi insaturi liberi o esterificati si degradano dando luogo a aldeidi e chetoni, acidi e alcoli con conseguente variazione della qualità nutrizionale e sensoriale del prodotto alimentare.

Il tipo di irrancidimento che si verifica con maggior frequenza è quello di tipo ossidativo dovuto all’assorbimento dell’ossigeno da parte del substrato lipidico e tale reazione è promossa dalla luce, dal calore e da tracce di alcuni ioni metallici quali ferro, cobalto, rame, nichel e manganese.

In tale processo le catene lunghe degli acidi grassi vengono trasformate in catene corte tra cui l’acido n-butanoico noto come acido butirrico caratterizzato dall’odore poco e dal sapore acre, con un retrogusto dolciastro.

L’irrancidimento ossidativo avviene secondo un meccanismo radicalico che coinvolge solo in minima parte i grassi saturi per i quali l’ossidazione avviene a una temperatura di oltre 60°C mentre interessa i grassi insaturi e polinsaturi che sono, a causa della presenza di doppi legami quelli che si ossidano con maggiore facilità.

I fattori che influenzano la velocità dell’irrancidimento sono, oltre al tipo di grasso, la temperatura, la presenza di luce e di ioni metallici che agiscono da catalizzatori.

Nella fase di iniziazione si deve avere la formazione di un radicale che avviene per scissione omolitica di un legame C-H presente.

Detto RH l’acido grasso nella fase di iniziazione si ha:

RH → R∙ + H∙

Nella fase di propagazione il radicale formato reagisce con O2 con formazione del radicale idroperossi molto instabili:

R∙ + O2 → ROO∙

Seguita dalla formazione dell’idroperossido e nuovamente dal radicale R∙ molto reattivo:

ROO∙ + RH → ROOH + R∙

Due idroperossidi reagendo tra loro formano acqua, radicali perossi ROO∙ e radicali alcossi RO∙

2 ROOH → ROO∙ + RO∙ + H2O

Sia il radicale alcossi che il radicale idroperossi formatisi dalla decomposizione dell’idroperossido reagiscono con l’acido grasso:

RO∙ + RH → ROH + R∙

ROO∙ + RH → ROOH + R∙

Nella fase di terminazione si formano dimeri, eteri e perossidi:

R∙ + R∙ → RR

RO∙ + R∙ → ROR

ROO∙ + R∙ → ROOR

Un elevato numero di perossidi evidenzia un processo di ossidazione già avviato e irreversibile sinonimo di degradazione ed invecchiamento. Un numero di perossidi molto elevato costituisce quindi un segno di invecchiamento del prodotto che porta all’irrancidimento pertanto vengono eseguite analisi appropriate per la loro determinazione.

Basi forti

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Secondo Arrhenius le basi sono quelle sostanze capaci di liberare ioni OH- in soluzione mentre secondo Brönsted-Lowry le basi sono accettori di protoni.

Le tipiche basi secondo Arrhenius sono costituite da un metallo legato a uno o più gruppi OH- a seconda del numero di ossidazione del metallo come, ad esempio, NaOH, Mg(OH)2 e Al(OH)3.

Una base di Brönsted-Lowry , dovendo essere in grado di accettare un protone, deve avere un atomo con un doppietto elettronico solitario attraverso il quale forma un legame dativo con lo ione H+ per formare il suo acido coniugato come, nel caso di NH3 che, agendo da base, grazie al doppietto elettronico solitario presente sull’azoto, accetta un protone e dà luogo alla formazione dello ione NH4+.

Come nel caso degli acidi si annoverano poche basi forti ovvero quelle basi che possono essere considerate dissociate al 100% quindi la concentrazione dello ione [OH-] è pari alla concentrazione della base se essa contiene un solo gruppo OH- mentre, nel caso di basi del tipo M(OH)2 la concentrazione dello ione OH- è il doppio rispetto a quella della base.

Una base forte ha una costante Kb molto elevata e, se è molto concentrata, ha un valore di pH maggiore di 14.

Il pH, è definito come: pH = – log [H+] mentre il pOH è definito come – log [OH-] e salvo diversa indicazione sussiste la relazione pH + pOH = 14.

Nel caso di una soluzione di base forte come NaOH a concentrazione 2 M si ha che pOH = – log 2 =  – 0.3 da cui pH = 14 – pOH = 14 – (-0.3)= 14.3

Le basi forti sono tipicamente costituite da metalli alcalini o alcalino-terrosi e vengono riportate in tabella:

Nome Formula Ionizzazione
LiOH Idrossido di litio Li+ + OH-
NaOH Idrossido di sodio Na+ + OH-
KOH Idrossido di potassio K+ + OH-
RbOH Idrossido di rubidio Rb+ + OH-
CsOH Idrossido di cesio Cs+ + OH-
Ca(OH)2 * Idrossido di calcio Ca2+ + 2 OH-
Sr(OH)2 * Idrossido di stronzio Sr2+ + 2 OH-
Ba(OH)2 * Idrossido di bario Ba2+ + 2 OH-

 

* Tali basi sono poco solubili in acqua

Si tenga presente che la basicità aumenta dall’alto verso il basso lungo un gruppo e pertanto CsOH è una base più forte di NaOH

Standardizzazione del tiosolfato

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Le titolazioni iodometriche che rivestono un ruolo importante nell’ambito dell’analisi chimica quantitativa si basano sulle proprietà riducenti dello ione ioduro che dà luogo alla formazione di iodio.

Lo ioduro viene aggiunto in eccesso alla soluzione da titolare e lo iodio risultante viene titolato con una soluzione di tiosolfato di sodio in presenza di salda d’amido quale indicatore.

La standardizzazione della soluzione di tiosolfato può essere effettuata secondo diverse metodiche.

Preparazione di una soluzione di tiosolfato a titolo approssimato 0.1 M

Far bollire 1 L di acqua distillata per 10-15 minuti e lasciarla raffreddare a temperatura ambiente; aggiungere circa 25 g di Na2S2O3∙ 5 H2O e 0.1 g di Na2CO3. Agitare fin quando il solido non si è dissolto e conservare la soluzione al buio.

Standardizzazione del tiosolfato con iodato di potassio

Una soluzione di tiosolfato di potassio può essere standardizzata titolando lo iodio prodotto quando un eccesso di ioduro di potassio viene aggiunto a un volume noto di una soluzione a titolo noto di iodato di potassio.

La reazione è:

IO3- + 5 I- + 6 H+ → 3 I2 + 3 H2O

Per ottenere una soluzione 0.0100 M di iodato di potassio che si utilizza quale standard primario si mette in stufa a 110°C lo iodato di potassio per almeno un’ora che viene poi fatto raffreddare in un essiccatore.

Si pesano circa 1.1 g di iodato di potassio che vengono poi trasferiti quantitativamente in un matraccio da 500 mL e portare a volume.

La massa dello iodato di potassio che deve essere accuratamente determinata con una bilancia analitica deve essere prossima a 1.1 g e debitamente annotata in modo da ottenerne la molarità.

Prelevare 50.0 mL della soluzione di iodato di potassio, aggiungere 2 g di ioduro di potassio e agitare. Aggiungere infine 2 mL di HCl 6 M e procedere alla titolazione con la soluzione di tiosolfato che reagisce con lo iodio prodotto secondo la reazione:

I2 + 2 S2O32- → 2 I- + S4O62-

Procedere nella titolazione fin quando la soluzione diventa giallo pallido. Aggiungere la salda d’amido e proseguire la titolazione fino a scomparsa del colore blu.

Calcoli:

Si supponga di aver pesato 1.100 g di iodato di potassio.

Moli di iodato di potassio = 1.100/214.001 g/mol=0.005140

Concentrazione dello iodato di potassio = 0.005140 mol/ 0.500 L= 0.0103 M

Moli di iodato di potassio in 50.0 mL = 0.0103 M x 0.0500 =0.000515

Moli di iodio ottenute = 0.000515 x 3 =0.00155

Moli di tiosolfato titolate = 0.00155 x 2 =0.00310

Si supponga che siano occorsi 28.4 mL di tiosolfato per la titolazione

Molarità del tiosolfato = 0.00310/ 0.0284 L = 0.109 M

Standardizzazione del tiosolfato con il rame

Lo ione rame (II) può essere ridotto quantitativamente a rame (I) dallo ioduro secondo la reazione:

2 Cu2+ +4 I- → 2 CuI(s) + I2  (1)

Sebbene, sulla base dei potenziali standard di riduzione, lo ioduro non abbia la tendenza a ridurre il rame (II) infatti i potenziali standard di riduzione sono:

Cu2+ + e- ⇌ Cu+    E° = + 0.15 V

I2 ⇌ 2 I-     E° = + 0.54 V

e la reazione Cu2+ + I2 ⇌ Cu+ + 2 I- ha un potenziale di + 0.15 – 0.54 = – 0.39 V < 0 il che implica che la reazione non è spontanea ma la formazione di CuI dalla semireazione di riduzione

Cu2+ + I- + 1 e- ⇌ CuI(s)  ha un potenziale E° pari a + 0.86 C e pertanto la (1) avviene.

La soluzione deve contenere almeno il 4% di ioduro in eccesso affinché la reazione sia quantitativa i il pH deve essere inferiore a 4 per evitare la formazione di ioni complessi del rame che reagiscono lentamente e non quantitativamente con lo ioduro.  L’acidità della soluzione non deve essere maggiore di 0.3 M in quanto lo ione ioduro, in presenza di sali di rame tende a ossidarsi in presenza di aria.

Anche gli ossidi di azoto catalizzano l’ossidazione dello ioduro: tali ossidi derivano dall’uso dell’acido nitrico usato per la dissoluzione del rame metallico. Viene pertanto utilizzata l’urea per eliminare tali ossidi secondo la reazione:

(NH2)2CO + 2 HNO2 → N2 + CO2 + 3 H2O

Per ottenere una soluzione di urea al 5% m/v sciogliere circa 5 g di urea in acqua e portare a volume a 100 mL. Per ogni titolazione occorrono circa 10 mL di tale soluzione.

La titolazione dello iodio da parte del tiosolfato presenta un problema dovuto al fatto che lo iodio viene adsorbito, sia pure in piccole quantità dallo ioduro di rame (I) e ciò porta ad un errore in quanto il punto finale viene individuato con un volume minore di titolante. Tale problema viene superato con l’aggiunta di tiocianato che reagisce con lo ioduro di rame (I) secondo la reazione:

CuI(s) + SCN-  → CuSCN(s) + I-

con la conseguente formazione di ioduro che risulta così nuovamente disponibile.

L’aggiunta di tiocianato deve essere effettuata dopo che la titolazione è iniziata onde evitare la reazione, peraltro lenta, tra tiocianato e iodio:

2 SCN- + I2 → 2 I- + (SCN)2

Il rame deve essere ridotto in fili o piccoli fogli di 0.20-0.25 g ; per tale operazione non toccare il metallo per evitare contaminazioni.

Pesare con accuratezza il rame e trasferirlo in una beuta; aggiungere 5 mL di acido nitrico 6 M fin quando il metallo si è dissolto.

Aggiungere 10 mL della soluzione di urea e far bollire per poco tempo. Aggiungere ammoniaca concentrata fin quando la soluzione appare di colore blu a causa della formazione del complesso Cu(NH3)22+.

Aggiungere goccia a goccia acido solforico 3 M fin quando tale colorazione scompare. Aggiungere 2.0 mL di acido fosforico all’85%. Aggiungere 4.0 g di KI e titolare con il tiocianato fino a comparsa di colorazione gialla.

Aggiungere 5 mL di salda d’amido e continuare la titolazione fino a comparsa di una colorazione blu chiaro.

Aggiungere 2 g di KSCN e agitare vigorosamente per 30”. Completare la titolazione fino a scomparsa del colore blu.

Rame

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La storia del rame e delle sue leghe più note, ovvero il bronzo e l’ottone, rappresenta la storia dell’umanità e degli sforzi compiuti dall’uomo emerso dall’età della pietra.

Il rame è stato probabilmente il primo metallo utilizzato dall’uomo e l’ascia dell’uomo di Similaun vissuto nel 3200 a.C. era di rame. Gli uomini dell’epoca capirono che il rame era molto morbido per essere utilizzato nei modi più svariati e che poteva assumere caratteristiche migliori se unito ad altri metalli.

Il bronzo che è la prima lega creata dall’uomo ottenuto unendo al rame lo stagno in misura variabile che può arrivare fino al 25% venne usato per costruire armi, corazze e strumenti da lavoro era noto per la sua resistenza e Orazio in una delle sue più celebri odi scrive: “exegi monumentum aere perennius” (ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo).

L’ottone contenente oltre al rame una percentuale di zinco tra il 5 e il 45% fu creato circa 2500 anni fa e usato dai Romani che ottenevano il rame dalle miniere dell’isola di Cipro da cui trasse il nome tale metallo per coniare monete, oggetti ornamentali e stoviglie.

La prima pila capace di produrre una corrente elettrica costante creata da Alessandro Volta era formata da dischi di zinco e di rame, posti uno sopra l’altro, uniti con uno strato intermedio di feltro o cartone imbevuto in acqua salata o acidulata.

Nel corso della Prima Rivoluzione Industriale si assisté a un radicale cambiamento nel campo dei trasporti che stimolò lo sviluppo delle industrie di produzione di beni strumentali tra cui i cavi di rame.

Nei tempi moderni il rame, grazie alla sua malleabilità e alla elevata capacità di condurre la corrente elettrica, viene utilizzato in importanti aree di consumo nell’ambito delle costruzioni, nel settore automobilistico  e in campo industriale.

Il rame viene ottenuto dalla cuprite in cui il rame è generalmente presente sotto forma di ossido rameoso Cu2O, dalla tenorite in cui si trova il rame sotto forma di ossido rameico CuO, dalla malachite in cui è presente come idrossido carbonato rameico Cu2(CO3)(OH)2, dalla calcocite dove si trova sotto forma di solfuro rameoso Cu2S, dalla covellite dove si trova sotto forma di solfuro rameico CuS, dalla bornite dove si trova, insieme al ferro, sotto forma di solfuro Cu5FeS4.

Il rame, insieme all’argento e all’oro, fa parte del gruppo 11 o IB ed ha configurazione elettronica [Ar] 3d10,4s1 ed ha come numeri di ossidazione più comuni +1 e +2.

Il rame con numero di ossidazione +3 viene trovato in alcuni ossidi e trova impiego nei superconduttori quali l’ossido di ittrio, bario e rame YBCO in cui il rame si trova sia come rame (II) che come rame (III).

Il rame reagisce con l’ossigeno atmosferico per formare uno strato di ossido di rame che, a differenza della ruggine che si forma sul ferro, protegge il metallo sottostante da ulteriori corrosioni secondo il ben noto fenomeno della passivazione.

Per comprendere il comportamento del rame e dei suoi ioni bisogna tenere presente i potenziali normali di riduzione:

Cu2+ + 1 e- → Cu+   E° = 0.15 V

Cu+ + 1 e- → Cu   E° = 0.52 V

Cu2+ + 2 e- → Cu   E° = 0.34 V

Ciò implica che qualsiasi ossidante abbastanza forte per convertire Cu a Cu+ è in grado di convertire Cu+ a Cu2+ e quindi i composti di rame (II), che sono spesso colorati, sono più stabili rispetto a quelli di rame (I) in soluzione acquosa.

Inoltre il rame (I) può dare una reazione di disproporzione:

2 Cu2 → Cu2+ + Cu per la quale E° = – 0.15 + 0.52 = 0.37 V

A causa del potenziale correlato alla semireazione Cu → Cu2+ + 2 e-  che è pari a – 0.34 V il rame è inerte agli acidi non ossidanti come l’acido cloridrico mentre si scioglie in acidi ossidanti tra cui l’acido nitrico.

Il rame, sia come rame (I) che come rame (II) forma numerosi composti ed in particolare ossidi, solfuri e alogenuri.

L’ossido di rame (II) ha carattere basico infatti si scioglie a contatto con gli acidi con formazione di sali di rame (II):

CuO(s) + H2SO4(aq)→ CuSO4(aq) + H2O(l)

CuO(s) + 2 HCl (aq)→ CuCl2(aq) + H2O(l)

CuO(s) +2 HNO3(aq)→ Cu(NO3)2(aq) + H2O(l)

L’aggiunta di idrogenocarbonato di sodio a una soluzione contenente ioni Cu2+ dà luogo alla formazione di un precipitato azzurro di carbonato di rame (II):

Cu2+(aq) + 2 HCO3-(aq) → CuCO3(s) + H2O(l)+ CO2(g)

L’aggiunta di uno ioduro a una soluzione contenente ioni Cu2+ dà luogo alla formazione di un precipitato di ioduro di rame (II):

Cu2+(aq) + 4 I-(aq) → 2 CuI(s) + I2(aq)

Tale reazione può essere utilizzata nelle titolazioni iodometriche per la determinazione del rame presente in un campione: lo iodio sviluppato dalla reazione viene infatti titolato con tiosolfato di sodio usando come indicatore la salda d’amido.

L’ossido di rame (I) si solubilizza in presenza di acido solforico dando un precipitato di rame metallico e una soluzione di solfato di rame secondo la reazione di disproporzione:

Cu2O(s) + H2SO4(aq)→ Cu(s) + CuSO4(aq) + H2O(l)

Il rame forma molti complessi tra cui il tetrammino rame (II) [Cu(NH3)22+] di colore blu intenso, il tetracianocuprato (II) [Cu(CN)42-], l’esaacquo rame(II) [Cu(H2O )62+] di colore azzurro, il tetraacquo rame(II) [Cu(H2O )42+]

Quando ad una soluzione contenente lo ione esaacquorame (II) viene aggiunto idrossido di sodio si ha la precipitazione di un idrossido blu gelatinoso:

[Cu(H2O )62+](aq) + 2 OH-(aq) → [Cu(H2O )4 (OH)2](s) + 2 H2O(l)

Se alla soluzione contenente lo ione esaacquorame (II) viene aggiunta ammoniaca, quest’ultima agisce sia da legante che da base. Quando è aggiunta una piccola quantità di ammoniaca si forma un complesso neutro secondo la reazione:

[Cu(H2O )62+](aq) + 2 NH3(aq) → [Cu(H2O )4 (OH)2](s) + 2 NH4+(aq)

Tale precipitato si scioglie se viene aggiunto un eccesso di ammoniaca per la formazione del tetraammino complesso:

[Cu(H2O )62+](aq) + 4 NH3(aq) → [Cu(NH3)4(H2O )2]2+(aq) + H2O(l)

Anche il rame (I) dà luogo alla formazione di complessi: ad esempio dalla reazione tra il cloruro di rame (I) e acido cloridrico si forma lo ione complesso diclorocuprato (I) secondo la reazione:

CuCl(s) + Cl-(aq)→ [Cu(Cl)2]-(aq)

Dalla reazione tra il cloruro di rame (I) con il cianuro di potassio si forma lo ione complesso tetracianocuprato (I):
CuCl(s) + 4 CN-(aq) → [Cu(CN)4]3-(aq) + Cl-(aq)

 

Esercizi sulle titolazioni redox

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Le titolazioni sono un efficace metodo di analisi chimica quantitativa di tipo volumetrico che consentono, nota la concentrazione del titolante e il volume impiegato per il raggiungimento del punto finale di conoscere la concentrazione dell’analita.

Le titolazioni, pur basandosi sullo stesso principio, sono di vari tipi come le titolazioni acido-base, le titolazioni complessometriche, le titolazioni ossidimetriche e quelle per precipitazione.

Sia a livello teorico che a livello pratico ci si imbatte nei calcoli per la determinazione della concentrazione dell’analita.
In linea di massima si consiglia innanzi tutto di bilanciare la reazione e di considerare il rapporto stechiometrico delle specie coinvolte. A titolo di esempio vengono proposti alcuni esercizi.

1)      Lo iodio reagisce con il tiosolfato riducendosi a ioduro e ossidando il tiosolfato a tetrationato. Calcolare la molarità di una soluzione di iodio se per titolare 25.0 cm3 di soluzione sono occorsi 26.5 cm3 di una soluzione di tiosolfato 0.0950 M

La reazione bilanciata è:

2 S2O32- + I2 → S4O62- + 2 I-

Le moli presenti in 26.5 cm3 della soluzione di tiosolfato sono:

Moli di S2O32- = 0.0265 dm3 ∙ 0.0950 M = 0.00252

Il rapporto stechiometrico tra tiosolfato e iodio è di 2:1

Moli di iodio = 0.00252/2= 0.00126

Molarità della soluzione di iodio = 0.00126 mol/0.0250 dm3 =0.0504 M

 

2)      Nella determinazione permanganometrica del ferro (II) si usa quale titolante il permanganato di potassio che riduce il ferro (II) a ferro (III) riducendosi a manganese (II). Una quantità pari a 8.25 g di un sale di ferro (II) è stata sciolta in acqua e portata al volume di 250 cm3. Un’aliquota avente volume 25.0 cm3 è stata titolata da una soluzione di permanganato di potassio 0.0200 M. sono state effettuate tre titolazioni e il volume di titolante è stato: 23.95 cm3, 23.80 cm3 e 23.85 cm3.

Calcolare la quantità di ferro presente in termini percentuali

La reazione bilanciata è:

MnO4- +5 Fe2+ + 8 H+ → Mn2+ + 5 Fe3+ + 4 H2O

Calcoliamo il volume medio di titolante:
V = 23.95 + 23.80 + 23.85 /3 = 23.87 cm3

Le moli di permanganato utilizzate sono:

moli di MnO4- = 0.02387 dm3 ∙ 0.0200 M = 0.0004773

il rapporto stechiometrico tra permanganato e ferro (II) è di 1:5

moli di Fe2+ in 25.0 cm3 = 5 ∙ 0.0004773 = 0.002387

moli di Fe2+ in 250 cm3 = 0.002387 ∙ 250/25.0=0.02387

massa di ferro = 0.02387 mol ∙ 55.845 g/mol=1.333 g

La percentuale di ferro presente nel campione è quindi:
% Fe = 1.333 x 100/8.25 = 16.1

3)      Un campione impuro di ossido di ferro (III) avente massa 2.83 g viene sciolto in acido cloridrico concentrato e la soluzione viene diluita a 250 cm3. Un’aliquota di 25.0 cm3 di tale soluzione viene trattata con eccesso di cloruro di stagno (II) che riduce il ferro (III) a ferro (II) mentre lo stagno si ossida a stagno (IV). La soluzione di ferro (II) viene titolata con 26.4 cm3 di soluzione di bicromato di potassio 0.0200 M. Calcolare la percentuale di ossido di ferro (III) presente nel campione

Le reazioni coinvolte sono:

Sn2++ 2 Fe3+ → Sn4++ 2 Fe2+

Cr2O72- + 6 Fe2++ 14 H+ → 2 Cr3+ + 6 Fe3++ 7 H2O

Moli di bicromato di potassio = 0.0264 dm3 ∙ 0.0200 M = 0.000528

Il rapporto stechiometrico tra bicromato e ferro (II) è di 1:6

Moli di ferro (II) = 0.000528 ∙ 6 = 0.00317

Dalla prima reazione il rapporto stechiometrico tra ferro (III) e ferro (II) è di 2:2 ovvero di 1:1

Moli di ferro (III) = 0.00317

Moli di Fe2O3 = 0.00317/2=0.00158

Massa di Fe2O3 = 0.00158 mol ∙ 159.69 g/mol = 0.253 g

La massa di Fe2O3 ricavata è quella presente in 25.0 cm3

Massa di Fe2O3 in 250.0 cm3 = 0.253 ∙ 250/25.0 = 2.53 g

% Fe2O3 = 2.53 x 100/2.83 = 89.4 %

4)      Un campione di 10.0 g di ferro (II) ammonio solfato idrato viene solubilizzato in 250 cm3 di soluzione acidificata. Un’aliquota di 25.0 cm3 è stata titolata con 21.25 cm3 di una soluzione di bicromato di potassio 0.0200 M. Determinare l’acqua di idratazione presente in FeSO4(NH4)2SO4∙ xH2O

La reazione tra ferro (II) e bicromato è:

Cr2O72- + 6 Fe2++ 14 H+ → 2 Cr3+ + 6 Fe3++ 7 H2O

Moli di bicromato = 0.02125 dm3 ∙ 0.0200 M = 0.000425

Il rapporto stechiometrico tra bicromato e ferro (II) è di 1:6

Moli di ferro(II) in 25.0 cm3 = 0.000435 ∙ 6 = 0.00255 = moli di FeSO4(NH4)2SO4∙ xH2O

moli di FeSO4(NH4)2SO4∙ xH2O in 250 cm3 = 0.00255 ∙ 250/25.0 = 0.0255

Peso molecolare di FeSO4(NH4)2SO4∙ xH2O = 10.0 g/0.0255 mol = 392.2 g/mol

Il peso molecolare di FeSO4(NH4)2SO4 è di 284.1 g/mol

392.2 – 284.1 = 108.1

Ciò implica che in 392.2 g di moli di FeSO4(NH4)2SO4∙ xH2O vi sono 108.1 g di acqua

Moli di acqua = 108.1 g/18.02 g/mol = 6

La formula del composto idrato è quindi moli di FeSO4(NH4)2SO4∙ 6 H2O

5)      Un campione contenente ferro (III) di massa 13.2 g viene solubilizzato in acqua acidificata con acido solforico e ridotto a ferro (II) dallo zinco. La soluzione viene filtrata e portata a un volume di 500 cm3. Un’aliquota di 20.0 cm3 di tale soluzione è stata titolata con 26.5 cm3 di permanganato di potassio 0.0100 M. Determinare la percentuale di ferro (III) presente nel campione

Le reazioni coinvolte sono:

Zn +2 Fe3+ → Zn2+ + 2 Fe2+

MnO4- +5 Fe2+ + 8 H+ → Mn2+ + 5 Fe3+ + 4 H2O

Moli di permanganato di potassio = 0.0265 dm3 ∙ 0.0100 M = 0.000265

Il rapporto stechiometrico tra permanganato e ferro (II) è di 1:5

Moli di ferro (II) contenute in 20.0 cm3 = 0.000265 ∙ 5 = 0.00133

Moli di ferro (II) contenute in 500 cm3 = 0.00133 ∙ 500/20.0 = 0.0331 = moli di ferro (III) contenute nel campoine

Massa di ferro (III) = 0.0331 mol ∙ 55.845 g/mol =1.85 g

% Fe = 1.85 x 100/ 10.0 = 18.5 %

6)      Il permanganato di potassio ossida lo ione nitrito a nitrato riducendosi a manganese (II). Una soluzione acidificata di permanganato di potassio 0.0250 M avente volume 25.0 cm3 viene titolata con 24.2 cm3 di nitrito di potassio. Calcolare la concentrazione del nitrito di sodio espressa in g/dm3

La reazione bilanciata è:

2 MnO4- + 5 NO2- + 6 H+ → 2 Mn2+ + 5 NO3- + 3 H2O

Moli di permanganato di potassio = 0.0250 dm3 ∙ 0.0250 M =0.000625

Il rapporto stechiometrico tra permanganato e nitrito è di 2:5

Moli di nitrito = 0.000625 ∙ 5 /2 = 0.00156

Massa di nitrito di sodio in 24.3 cm3 = 0.00156 mol ∙ 68.9953 g/mol = 0.108 g

Massa di NaNO2 in 1 dm3 = 1000 cm3 = 0.0108 ∙ 1000/ 24.3 = 4.43 g/dm3


Bicromato di potassio

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Il bicromato di potassio è un solido ionico cristallino dal tipico colore arancione in cui sono presenti due ioni K+ e lo ione poliatomico Cr2O72- in cui il cromo ha numero di ossidazione +6.

bicromato

Viene comunemente utilizzato in laboratorio come reagente e trova largo impiego nell’industria: viene aggiunto al cemento per aumentarne la densità e la consistenza, trova utilizzo nella tintura, colorazione e concia delle pelli.

Il bicromato di potassio è un ossidante stante la semireazione di riduzione:

Cr2O72- + 14 H+ + 6 e- ⇌ 2 Cr3+ + 4 H2O

per la quale il potenziale normale di riduzione E° vale + 1.33 V

Il bicromato di potassio è stato largamente usato per la pulizia della vetreria di laboratorio; la miscela cromica o misto cromico viene ottenuto unendo una soluzione costituita da 50 g di bicromato di potassio e 50 mL di acqua a 1 L di acido solforico concentrato. La miscela cromica costituisce, insieme alla potassa alcolica, l’ultima possibilità per la pulizia della vetreria.

Tale capacità è ascrivile al fatto che il bicromato di potassio in ambiente acido dà luogo alla formazione dell’acido cromico che ha elevate capacità ossidanti. L’azione sinergica delle capacità ossidanti dell’acido cromico e delle proprietà solventi e mineralizzanti dell’acido solforico rendono tale miscela particolarmente efficace. Viene versata nel recipiente da pulire, lasciata agire e poi versata nuovamente nel suo contenitore; solo quando la soluzione dal colore arancio passa al colore verde la miscela non è più efficace in quanto tutto il bicromato si è ridotto a cromo (III). Tale miscela, sebbene efficace, viene scarsamente utilizzata in quanto particolarmente pericolosa sia per la presenza di acido solforico concentrato che per la presenza del bicromato che è considerato come una sostanza potenzialmente cancerogena.

In soluzione acquosa lo ione bicromato è in equilibrio con lo ione cromato:

Cr2O72- + H2O ⇌ 2 CrO42- + 2 H+

La posizione di tale equilibrio è influenzata dal pH infatti, per il principio dell’equilibrio mobile di Le Chatelier un aumento di acidità, corrispondente a una diminuzione del pH sposta l’equilibrio a sinistra.

Il minerale più ricco di cromo è la cromite in cui è presente un ossido di ferro e cromo FeCr2O4. Trattando tale ossido con carbonato di sodio e ossigeno si ottiene il bicromato di sodio secondo la reazione:

4 FeCr2O4 + 8 Na2CO3 + 7 O2 → 8 Na2CrO4 + 2 Fe2O3 + 8CO2

Trattando il bicromato di sodio con cloruro di potassio si ottiene il bicromato di potassio secondo la reazione:

Na2Cr2O7 + 2 KCl → K2Cr2O7 + 2 NaCl

Il bicromato di potassio è stabile in condizioni normali ma dà luogo a una decomposizione termica per dare cromato di potassio, ossido di cromo (III) e ossigeno:

4 K2Cr2O7 → 4 K2CrO4 + 2 Cr2O3 + 3 O2

Reagisce reversibilmente con le basi tra cui il carbonato di potassio per dare una soluzione gialla contenente cromato di potassio:

K2Cr2O7 + K2CO3 → 2 K2CrO4 + CO2

Per le sue proprietà ossidanti il bicromato di potassio viene utilizzato per alcuni saggi nell’ambito dell’analisi chimica qualitativa.

Il biossido di zolfo fatto gorgogliare attraverso una soluzione concentrata di bicromato di potassio acidificata con acido solforico rende la soluzione verde a causa della reazione:

3 SO2 + K2Cr2O7 + H2SO4 → K2SO4 + Cr2(SO4)3 + H2O

Il bicromato di potassio viene utilizzato nell’alcol test e per distinguere gli gli alcoli primari e secondari dagli alcoli terziari.  Gli alcoli primari e secondari reagiscono con il bicromato secondo la reazione:

3 RCH2OH + Cr2O7 2- + 8 H+  → 3 RCHO + 2 Cr3+ + 7 H2O

In tale reazione gli alcoli primari si trasformano in aldeidi e quelli secondari in chetoni mentre gli alcoli terziari non danno alcuna reazione.

I metalli preziosi, ed in particolare l’argento, possono essere testati con la soluzione di Schwerter preparata mescolando 1 g di bicromato di potassio, 22 mL di acido nitrico concentrato e 8 mL di acqua.

Applicando una goccia della soluzione al campione di argento esso diventerà rosso brillante se il metallo è puro, rosso scuro se il titolo dell’argento è 925, marrone se il titolo è 800 mentre se il titolo è 500 assumerà colore verde.

Analisi qualitativa degli amminoacidi

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Gli amminoacidi, che sono le unità costitutive delle proteine, sono legati tra loro attraverso un legame peptidico e la loro sequenza fornisce la struttura primaria della proteina. Gli amminoacidi hanno una catena laterale che varia da amminoacido a amminoacido, un gruppo amminico e uno acido e sono quindi molecole anfotere potendosi comportare sia da acidi che da basi.

A un determinato valore di pH detto pH isoelettrico il gruppo amminico risulta protonato ed ha quindi una carica positiva e il gruppo carbossilico deprotonato ed ha quindi una carica negativa. A tale valore di pH l’amminoacido quindi si troverà in forma zwitterionica in cui la carica netta è zero.

Per determinare la presenza di alcuni amminoacidi vengono utilizzati molti saggi specifici di alcuni dei quali si fornisce la descrizione

Reazione xantoproteica

Tramite questo test è possibile sapere se vi è la presenza di un amminoacido contenente un anello aromatico come la fenilalanina, il triptofano e la tirosina.

L’acido nitrico dà una reazione di nitrazione con l’anello benzenico per dare un nitroderivato che assorbe alcune lunghezze d’onda dello spettro visibile, e viene percepito di colore giallo; pertanto  al campione viene aggiunto acido nitrico e una colorazione gialla denota la presenza di un amminoacido contenente un anello benzenico. La successiva aggiunta di NaOH fino a rendere l’ambiente basico porta alla formazione di un derivato del fenato di sodio di colore giallo arancio
Reazione xantoproteica

 

Reazione di Pauly

Tramite la reazione di Pauly si possono evidenziare gli anelli aromatici contenuti nella tirosina e nell’istidina. Il reagente usato per questo test contiene acido solfanilico sciolto in acido cloridrico.

acido solfanilico

Questo acido contiene, come sostituente dell’anello aromatico il gruppo –NH2 e quindi appartiene alle ammine primarie aromatiche. La nitrosazione delle ammine primarie aromatiche in presenza di acido nitroso, abitualmente generato in situ dal nitrito di sodio in presenza di un acido forte come l’acido cloridrico dà luogo alla formazione di un sale di diazonio. Quest’ultimo, in ambiente alcalino, reagisce con l’anello aromatico della tirosina e dell’istidina con formazione di un prodotto di colore rosso

Saggio di Millon

Il test non è specifico per l’identificazione di un amminoacido ma viene utilizzato per il riconoscimento del gruppo ossidrile aromatico tipico dei fenoli. La reazione è positiva per fenoli monossidrilati para-sostituiti con almeno una posizione in orto libera e pertanto risulta specifico per l’unico amminoacido che presenta tali caratteristiche ovvero la tirosina.

Il reattivo di Millon viene preparato facendo reagire mercurio metallico con acido nitrico concentrato per ottenere una soluzione contenente Hg+, Hg2+, ione nitrato e ione nitrito.

Si fa quindi reagire la sostanza in esame col reattivo riscaldando la soluzione e il saggio è positivo se la soluzione assume una colorazione rossa.

Saggio di Hopkins Cole

Il saggio di Hopkins-Cole è specifico per il triptofano che è l’unico amminoacido contenente un gruppo indolico

triptofano

Al campione in soluzione viene aggiunto il reattivo di Hopkins Cole costituito da acido glicossidico. Alla soluzione viene aggiunto goccia a goccia acido solforico concentrato e si formano due strati. Il test è positivo al triptofano se all’interfaccia si forma una colorazione rossa.

 

Saggio al nitroprussiato

Il nitroprussiato di sodio è un sale complesso di ferro (III), cianuro e sodio che reagisce con il gruppo –SH. Tale test è quindi specifico per la cisteina che è l’unico amminoacido contenete tale gruppo e che, in presenza di nitroprussiato, dà luogo alla colorazione rossa.

Saggio al nitroprussiato

 

 

Saggio di Sakaguchi

Il saggio di Sakaguchi è specifico per l’arginina che contiene un gruppo guanidinico

arginina

In condizioni basiche l’1-idrossinaftalene reagisce con tale gruppo in presenza di ipobromito o ipoclorito che agiscono da ossidanti per dare un complesso dal tipico colore rosso.

 

Riconoscimento dello zolfo

Gli amminoacidi contenenti zolfo ovvero la cistina e la cisteina vengono portati all’ebollizione in presenza di idrossido di sodio danno luogo alla formazione di solfuro di sodio.  Quest’ultimo viene evidenziato facendolo reagire con una soluzione di acetato di piombo:

Na2S + Pb(CH3COO)2 → 2 CH3COONa + PbS↓

La formazione di un precipitato nero di solfuro di piombo conferma la presenza dello zolfo nell’amminoacido

 

Saggio di Folin McCarthy Sullivan

Gli amminoacidi contenti un gruppo imminico come prolina e idrossiprolina in condizioni basiche danno una reazione di condensazione con l’isatina, composto organico chetonico strutturalmente derivato dell’indolo per dare un composto di colore blu.

Scoperta molecola chirale nello spazio

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Una molecola è chirale quando presenta uno stereocentro  ovvero un atomo di carbonio legato a quattro sostituenti diversi. Le molecole chirali hanno la proprietà di non essere sovrapponibili alla propria immagine speculare e mostrano un particolare tipo di isomeria ottica.

Due molecole identiche in tutto salvo l’essere l’una l’immagine speculare dell’altra sono dette enantiomeri; esse differiscono per una particolare proprietà ottica ovvero se una soluzione contenente solo uno dei due enantiomeri viene attraversata da un fascio di luce linearmente polarizzato questo risulta deviato verso destra o verso sinistra.

In natura molte molecole biologiche come le proteine e gli zuccheri appaiono solo sotto forma di uno dei due enantiomeri possibili dando luogo al fenomeno noto come omochiralità: ad esempio le proteine appartengono alla serie L mentre gli zuccheri alla seria D. Negli ultimi tempi si è scoperta anche la sensibilità delle reazioni biochimiche alla chiralità; ad esempio è stata riconosciuta l’attività di uno solo dei due enantiomeri in molti farmaci chirali.

Un team di scienziati, avvalendosi di radiotelescopi molto sensibili ha scoperto la presenza di una molecola chirale nello spazio interstellare. La scoperta, pubblicata il 14 giugno sul giornale Science, è stata condotta in West Virginia nell’ambito delle indagini molecolari prebiotiche con il telescopio Green Bank e supportata dal telescopio Parkes in Australia.

Tale molecola è stata trovata in una nube molecolare gigante situata a 390 anni luce dal centro della Via Lattea detta Sagittarius B2. Era già stato scoperto, nell’ambito delle ricerche sull’origine della vita, che la nube era costituita da vari tipi di molecole come l’etanolo, l’alcol vinilico e il formiato di etile. L’ossido di propilene che presenta un carbonio chirale

ossido di propilene

è tra le molecole più strutturalmente complesse rilevate nello spazio e costituisce una piattaforma per la ricerca nella comprensione di come siano fatte le molecole prebiotiche e sugli effetti che possano aver avuto sulle origini della vita. Ulteriori scoperte mirano quindi a conoscere la genesi delle molecole chirali e le motivazioni per le quali una molecola biologica possa essere omochirale.

Si ritiene che le molecole negli spazi interstellari possano formarsi dalla collisione di molecole in fase gassosa più semplici. Tuttavia, una volta che queste molecole si sono formate, non si verificano ulteriori reazioni. Gli astronomi ritengono che la formazione dell’ossido di etilene che è una molecola più complessa avvenga su sottili strati di ghiaccio in cui il pulviscolo costituisce il germe di accrescimento.

Tali molecole possono poi evaporare e reagire ulteriormente con i gas contenuti nella nube. La caratterizzazione dell’ossido di propilene è stata fatta osservando le linee spettrali di tale molecola; il team di ricerca statunitense ha tuttavia osservato solo due delle tre linee spettrali tipiche dell’ossido di etilene. La terza linea che è infatti difficile da osservare dall’emisfero settentrionale a causa di interferenza radio satellitari è stata rilevata nell’emisfero meridionale.

I mezzi a disposizione non hanno tuttavia consentito di determinare la presenza di uno solo dei due enantiomeri o l’abbondanza relativa di uno rispetto all’altro sebbene i ricercatori ritengono che esaminando l’interazione di tale molecole con un fascio di luce linearmente polarizzato si possa giungere anche a questa scoperta. Il tipo di isomeria presente in tale molecola fornirà informazioni relative all’origine della vita.

Gas lacrimogeni

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Fin dall’antichità l’uomo, a scopo di difesa o di attacco ha fatto uso di armi chimiche. Sin dall’età della pietra per la caccia venivano usate frecce avvelenate imbevendo la punta con veleno di scorpione o di serpente.

Dall’uomo preistorico che si avvaleva delle frecce avvelenate per procurarsi il cibo per sopravvivere l’uso improvvido delle armi chimiche si rivolse allo scopo bellico; dall’avvelenamento delle derrate alimentari, all’uso di fumi tossici veri e propri ottenuti dalla combustione di sostanze che sprigionano sostanze velenose.

Nei tempi moderni furono i Francesi, nel corso della Prima Guerra Mondiale, a ricorrere ai gas lacrimogeni salvo poi ad essere attaccati nella battaglia di Ypres dalla micidiale iprite not anche come gas mostarda.

Lo sviluppo della scienza ha portato ad armi chimiche e batteriologiche sempre più sofisticate che alcuni paesi, in deroga ai trattati internazionali, hanno spesso disatteso.

I gas lacrimogeni vengono abitualmente utilizzati per disperdere rivoltosi e dissuaderli da propositi aggressivi. Questi gas dovrebbero limitarsi a provocare lacrimazione, difficoltà ad avere gli occhi aperti e al più di indurre difficoltà respiratorie senza causare danni permanenti. I gas lacrimogeni sono solidi a temperatura ambiente, hanno basse tensioni di vapore e sono stabili quando vengono riscaldati, scarsamente solubili in acqua ma solubili in molti solventi organici.

Purtroppo, sebbene la Polizia di molti paesi sia dotata di questi gas, essi possono provocare danni gravi al punto che Amnesty International ritiene necessaria una revisione dell’impiego da parte delle forze dell’ordine di tali agenti chimici che possono provocare il laringospasmo, la sindrome da distress respiratorio fino alla morte.

Con il termine di gas lacrimogeno non si intende un unico gas ma numerose sostanze; il più diffuso, peraltro in dotazione alla Polizia di Stato è il gas CS che deve il suo nome agli scopritori statunitensi Corson e Staughton; con questo nome si indica il 2-clorobenziliden-malononitrile. Esso viene sintetizzato a partire dalla 2-clorobenzaldeide e dal propandinitrile tramite una condensazione di Knoevenagel ed è catalizzata da basi deboli quali piridina e piperidina

gas lacrimogeni

 

Il gas CS è una polvere bianca che viene unita ad un agente disperdente come il diclorometano e inserita in un candelotto con una carica termica che, una volta innescata, riscalda il contenitore provocando l’evaporazione della sostanza lacrimogena che si disperde nell’ambiente sotto forma di fumo biancastro che reagisce con le mucose dell’organismo causando, nel migliore dei casi, una sensazione di bruciore e una forte lacrimazione. La scarsa solubilità del CS fa sì che esso rimane a contatto con le mucose per un tempo abbastanza prolungato se non viene rimosso fisicamente. In caso di esposizione prolungata si possono verificare danni ai polmoni, al cuore e al fegato ed inoltre sono stati associati aborti spontanei all’esposizione da CS.

Fino alla scoperta del CS avvenuta nel 1928 veniva usato il CN sintetizzato per la prima volta nel 1871 che è molto più tossico e meno efficace del CS. Il  gas CN o cloroacetofenone viene sintetizzato con un’acilazione di Friedel-Craft secondo la reazione

CN gas

Il CN è stato tuttavia usato nel corso della guerra in Vietnam da parte dell’esercito statunitense.

Un altro gas lacrimogeno 10 volte più efficace del CS è il gas CR ovvero la Dibenzo[b,f][1,4]ossazepina che porta a  irritazione cutanea, blefarospasmo e cecità temporanea, tosse e respiro affannoso con senso di soffocamento la cui esposizione prolungata può portare alla morte.

Sintetizzato alla fine degli anni ’50 dello scorso secolo è stato largamente usato, nonostante la sua pericolosità, in molte parti del mondo per sedare rivolte e per disperdere i partecipanti.

Il gas OC noto come gas al peperoncino basato sui derivati della capsaicina, alcaloide presente nelle piante del genere Capsicum responsabile della piccantezza del peperoncino viene spesso usato come autodifesa.

Viene ottenuto dalla macinazione dei frutti da cui viene estratto il principio attivo con un solvente organico come l’etanolo che viene fatto evaporare per ottenere una resina. Viene unito al glicole propilenico e pressurizzato per ottenere uno spray.

Agisce sulle mucose provocando irritazione, bruciore, tosse e lacrimazione. Pur non essendo considerato letale può dare gravi complicazioni in soggetti asmatici pertanto nei vari paesi del mondo vi è una legislazione che ne regola l’uso.

 

Resine composite in odontoiatria

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Nonostante i dibattiti degli ultimi anni il materiale più usato in tutto il mondo per il restauro di molari e premolari è l’amalgama dentale costituita da mercurio, argento, stagno, rame e zinco.

Al di là della potenziale tossicità del mercurio utilizzato nell’amalgama, questo tipo di materiale presenta, oltre ad un colore che non si mimetizza con il dente, anche la necessità di eseguire preparazioni del dente di tipo invasivo in quanto l’amalgama non ha la capacità di legarsi alla struttura dentale.

Sono stati quindi studiati materiali compositi per poter sostituire l’amalgama tradizionale. Inizialmente le resine composite erano soggette ad usura e avevano una elevata incidenza di frattura. Un impatto fondamentale sulla qualità della resina è stato dato dalla composizione della matrice resinosa.

Per ottenere una matrice adatta si è pensato all’uso delle resine epossidiche usate nelle applicazioni industriali che mostravano caratteristiche interessanti ma non erano sufficientemente dure.

D’altra parte il polimero derivante del metacrilato di metile mostra ha il difetto di diminuire il suo volume nel tempo. Si è così ipotizzato di partire da un monomero ibrido ottenuto dalla reazione del Bisfenolo A e glicidil metacrilato.

Il Bisfenolo A è un composto con due gruppi fenolici vicinali

bisfenolo a

mentre il glicidil metacrilato è un estere dell’acido metacrilico contenente un gruppo epossidico

glicidil metacrilato

Questa resina di base o matrice detta resina di Bowen è ottenuta dal monomero ibrido che dà un polimero reticolato tridimensionalmente con un comportamento diverso rispetto alle resine acriliche non modificate.

Al monomero Bis-GMA vengono aggiunti diluenti tra cui il trietilenglicoldimetacrilato (TEGDMA) per diminuirne la viscosità e pigmenti come il biossido di titanio e ossidi di ferro per ottenere il colore più adatto.

Alla matrice resinosa viene incorporato un materiale inorganico che ha la funzione di rinforzante costituito da vetro di bario o quarzo. Con la riduzione della dimensione delle particelle è stato possibile ottenere materiali con migliori proprietà meccaniche.

Per far aderire la matrice al riempitivo viene usato un legante detto anche agente accoppiante costituito da silano.

Il monomero Bis-GMA è caratterizzato da due doppi legami C=C ciascuno a una estremità della molecola

BisGMA

che polimerizza secondo un meccanismo di tipo radicalico quindi affinché la reazione abbia luogo è necessaria la presenza di radicali liberi che promuovono la formazione di radicali nel monomero di partenza dalla rottura dei doppi legami innescando una reazione a catena che conduce alla formazione di un polimero ad alto peso molecolare con struttura reticolata tridimensionale.

L’iniziatore, in genere canforochinone, e un’ammina terziaria, deve essere a sua volta attivato; ciò avviene ad opera di una radiazione di lunghezza d’onda compresa tra i 400 e i 520 nm e quindi grazie alla luce visibile si rende possibile l’attivazione.

I materiali compositi usati in odontoiatria, nonostante i progressi, continuano a presentare una scarsa longevità e pertanto la ricerca deve proseguire.

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