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Calore e passaggi di stato. Esercizi

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Ogni sostanza ha una temperatura di fusione e una temperatura di ebollizione che sono grandezze tabulate a una data pressione. Una sostanza solida a cui viene somministrato calore, una volta raggiunta la sua temperatura di fusione, necessita di altro calore per passare dallo stato solido a quello liquido che viene detto calore latente di fusione tipico di ogni sostanza. Discorso analogo viene fatto per il passaggio di stato da liquido a gassoso. La quantità di energia necessaria affinché avvenga un passaggio di stato dipende dalla sostanza, dalla sua massa e dal tipo di passaggio.

Per la fusione:

Q = m ∙ΔHfus (1)

per l’ebollizione

Q = m ∙ΔHeb (2)

dove Q è la quantità di calore assorbita o rilasciata durante il processo, m la massa della sostanza mentre ΔHfus e ΔHeb rappresentano rispettivamente il calore specifico di fusione e di ebollizione. Vengono riportati i calori molari di fusione e di ebollizione di alcune specie più comuni:

 

Sostanza ΔHfus (kJ/mol) ΔHeb (kJ/mol)
Ammoniaca 5.65 23.4
Etanolo 4.60 43.5
Metanolo 3.16 35.5
Ossigeno 0.44 6.82
Acqua 6.01 40.7

 

Esercizi

1)      Calcolare il calore assorbito sa 31.6 g di ghiaccio a 0°C per passare allo stato liquido.

Poiché i valori tabulati sono espressi in kJ/mol convertiamo i grammi in moli:

moli di acqua = 31.6 g/ 18.02 g/mol=1.75

applicando la (1) si ha:

Q = 1.75 mol ∙ 6.01 kJ/mol= 10.5 kJ

2)      Calcolare la massa di metanolo che passa dallo stato di vapore a quello liquido quando vengono rilasciati 20.0 kJ

Poiché ΔHeb del metanolo è di 35.5 kJ/mol il valore di ΔH relativo al processo inverso cioè al processo di condensazione è pari a – 35.5 kJ/mol.

Il calore viene dato dal sistema all’ambiente e pertanto assume valore negativo

Applicando la  (1) si ha:

- 20.0 kJ = – 35.5 kJ/mol ∙ moli

Da cui moli di metanolo = 0.563

Massa di metanolo = 0.563 mol ∙ 32.05 g/mol= 18.1 g

 

3)      Calcolare la quantità di calore necessaria perché 2.00 moli di ghiaccio alla temperatura di – 30.0 °C passino alla temperatura di 140 °C sapendo che il calore specifico del ghiaccio è di 2.06 J/g°C, il calore specifico dell’acqua è di 4.18 J/g°C e il calore specifico del vapore è di 1.87 J/g°C

Per risolvere questo esercizio si devono calcolare singolarmente le quantità di calore necessarie.

2.00 moli di acqua corrispondono a 2.00 mol x 18.02 g/mol= 36.04 g

Il calore necessario per portare 36.04 g di ghiaccio dalla temperatura di – 30.0 °C alla temperatura di fusione che è di 0 °C detto ΔH1 vale

ΔH1 = m ∙c∙ΔT = 36.04 g ∙ 2.06 J/g°C ( 0 – (-30.0)= 2.23 ∙ 103 J = 2.23 kJ

Per conoscere il calore necessario detto ΔH2 per far fondere il ghiaccio usiamo l’equazione (1) attingendo il calore molare di fusione dalla tabella:

ΔH2 = 2.00 mol ∙ 6.01 kJ/mol = 12.01 kJ

Il calore necessario detto ΔH3 per portare l’acqua da 0°C alla sua temperatura di ebollizione che è di 100°C  vale:

ΔH3 = 36.04 g ∙ 4.18 J/g°C ∙ (100 – 0)= 1.51 ∙ 104 J = 15.1 kJ

Per conoscere il calore necessario detto ΔH4 per portare l’acqua a 100°C allo stato di vapore usiamo l’equazione (2) attingendo il calore molare di ebollizione dalla tabella:

ΔH4 = 2.00 mol ∙ 40.7 kJ/mol = 81.4 kJ

Il calore necessario detto ΔH5 per portare il vapore dalla temperatura di 100 °C alla temperatura di 140 °C vale:

ΔH5 = 36.04 g ∙ 1.87 J/g°C ( 140 – 100) = 2.70 ∙ 103 J = 2.70 kJ

La quantità di colore complessiva è data da:

ΔH = 2.23 kJ + 12.01 kJ + 15.1 kJ + 81.4 kJ + 2.70 kJ = 113.4 kJ

 


Idrazina

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L’idrazina è un composto inorganico avente formula N2H4 dal tipico odore di ammoniaca; è un liquido incolore, pericoloso e tossico ed ha proprietà basiche sebbene sia molto più debole dell’ammoniaca. L’idrazina è infatti una base diacida e si comporta come energico riducente nei confronti di molti ioni metallici e molti ossidanti.

I prodotti dell’ossidazione dell’idrazina sono azoto e acqua anche se in certe condizioni si possono ottenere acido nitrico e ammoniaca. L’idrazina in presenza di aria infatti dà luogo alla reazione:

N2H4 + O2 → N2 + 2 H2O

La combustione dell’idrazina anidra con l’ossigeno sviluppa una grande quantità di energia, utilizzata nei motori a razzo quale propellente, il che ha portato allo sviluppo e al perfezionamento dei processi per la sua fabbricazione su scala industriale. L’idrazina come propellente era già stata usata dai nazisti per il loro primo aereo a razzo, nel 1945.

Nell’idrazina è presente un legame covalente tra i due atomi di azoto in cui ogni subunità H2-N-N ha una struttura piramidale.  Vi è quindi una barriera rotazionale tra i due atomi di azoto e la molecola assume una conformazione gauche:

idrazina

 

Per le sue proprietà riducenti l’idrazina può essere determinata qualitativamente aggiungendo una soluzione ammoniacale di nitrato di argento: la presenza di idrazina viene rivelata dalla formazione di un precipitato nero o uno specchio di argento metallico.

Poiché per le sue proprietà riducenti l’idrazina decolora le soluzioni di iodio essa può essere determinata quantitativamente tramite titolazione con una soluzione di iodio. Il pH deve essere mantenuto a un valore compreso tra 7 e 7.4 per impedire l’ossidazione dell’idrazina per mezzo dell’aria introducendo nella beuta azoto gassoso.

L’idrazina è solubile in acqua con cui forma una miscela azeotropica, alcol, ammoniaca e ammine ed è poco solubile o insolubile in idrocarburi e alogenuri alchilici.

Per le sue proprietà riducenti l’idrazina viene usata come antiossidante ed inoltre nell’ambito dello sviluppo fotografico in quanto è in grado di ridurre gli ioni metallici a metalli

L’idrazina è instabile e può decomporsi in modo esplosivo pertanto per abbassare la temperatura di esplosione vengono utilizzati metalli cataliticamente attivi come platino, rame, nichel e ferro o ossidi metallici come ossido di rame, ossido di cobalto, ossido di cromo e ossido di ferro.

L’idrazina fu sintetizzata per la prima volta dal chimico tedesco Theodor Curtius nel 1889 ma attualmente sono adottati diversi metodi industriali tra cui il processo Rasching che fu messo a punto nel 1907 dal chimico tedesco Friedrich Rasching.

In questo processo l’ipoclorito di sodio, ottenuto dalla reazione tra idrossido di sodio e cloro, viene fatto reagire a 5°C con l’ammoniaca:

2 NaOH + Cl2 → NaClO + NaCl + H2O

Dalla reazione si forma clorammina e idrossido di sodio:

NaClO + NH3 → NH2Cl + NaOH

La miscela ottenuta viene fatta reagire sotto pressione e alla temperatura di 130°C con formazione dell’idrazina:

NH2Cl + NaOH + NH3 → N2H4 + 2 NaCl + H2O

Il processo è accompagnato da reazioni indesiderate che ne abbassano la resa:

2 NH3 + 3 NH2Cl → 3 NH4Cl + N2

2 NH2Cl + N2H4 → 2  NH4Cl + N2

Le rese in idrazina vengono aumentate con l’aggiunta di gelatina, amico e caseina o con l’aggiunta di idrossido di magnesio.

Un altro metodo di sintesi dell’idrazina prevede l’ossidazione dell’urea con ipoclorito di sodio in presenza di idrossido di sodio secondo la reazione:

H2NCONH2 + NaClO + 2 NaOH → N2H4 + NaCl + Na2CO3 + H2O

Un altro metodo di sintesi, noto come processo Bayer Ketazine consiste nell’ossidazione dell’ammoniaca da parte dell’ipoclorito di sodio in presenza di acetone secondo le reazioni:

NaClO + 2 NH3 + 2 CH3COCH3 → (CH3)2C=N-N=C=(CH3)2 + NaCl + 3 H2O

(CH3)2C=N-N=C=(CH3)2 + 2 H2O → 2 CH3COCH3 + N2H4

L’idrazina è utilizzata come agente espandente di materie plastiche e come intermedio per la fabbricazione di sodio azide NaN3, sostanza contenuta negli air-bag delle automobili che, in caso di urti, si decompone rapidamente generando una grande massa di gas che fanno rigonfiare il sacco dell’airbag impedendo al viaggiatore di urtare contro il volante o il parabrezza.

L’idrazina è usata come inibitore della corrosione e trova impiego nell’estrazione del plutonio dal combustibile nucleare irraggiato.

L’idrazina e i suoi derivati trovano impiego nel campo di fabbricazione della gomma, di insetticidi, fungicidi, fibre sintetiche, esplosivi e intermedi per coloranti oltre che in alcune reazioni organiche quali la reazione di Curtius, la riduzione di Wolff-Kishner, l’idrolisi di immidi sostituite, nelle reazioni di dealogenazione, nella sintesi di derivati azotati eterociclici e nella reazione di McFadyen-Stebens

Riduzione di Wolff-Kishner

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Con la reazione di riduzione di Wolff-Kishner il  gruppo carbonilico presente nelle aldeidi e nei chetoni viene ridotto a gruppo metilenico . La reazione, riportata indipendentemente dal chimico russo Kishner allievo di Markovnikov nel 1911 e dal chimico tedesco Wolff nel 1912, comporta la deossigenzaione riduttiva del gruppo carbonilico dovuta all’azione di un riducente come l’idrazina in presenza di idrossido di potassio ad alta temperatura. Il solvente usato è infatti il glicole etilenico che ha un’alta temperatura di ebollizione.

La reazione di riduzione di Wolff-Kishner avviene in ambiente basico contrariamente alla reazione di riduzione di Clemmensen che avviene in ambiente acido. Il meccanismo della reazione prevede la generazione in situ dell’idrazone per condensazione dell’idrazina con il substrato aldeidico o chetonico. La successiva reazione dell’idrazone con la base provoca la riduzione del carbonio carbonilico per dare l’alcano corrispondente e l’ossidazione dell’azoto presente nell’idrazina ad azoto molecolare.

Wolff-Kishner

La reazione avviene sia con aldeidi o chetoni alifatici cosicché dall’etanale si ottiene l’etano e dal propanone il propano, sia con chetoni ciclici come il ciclopentanone da cui si ottiene il ciclopentano.

Nel caso in cui l’aldeide o il chetone di partenza presentino un eteroatomo in α al carbonile avviene la reazione di eliminazione di Kishner–Leonard che porta alla formazione di un alchene

Kishner-Leonard

Solfuro di idrogeno

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Il solfuro di idrogeno è un gas incolore dal tipico odore di uova marce avente formula H2S ed ha geometria tetraedrica con angolo di legame H-S-H di 92.1°. Contrariamente all’acqua, a causa della bassa differenza di elettronegatività tra zolfo e idrogeno il solfuro di idrogeno non forma legami a idrogeno e pertanto ha una temperatura di ebollizione di – 60°C.

Il solfuro di idrogeno è più pesante dell’aria e tende a depositarsi sul suolo e lo si può rinvenire in luoghi scarsamente ventilati come tombini, scantinati, pozzi, fogne.

In presenza di aria il solfuro di idrogeno dà luogo alla formazione di biossido di zolfo secondo la reazione:
2 H2S + 3 O2 → 2 SO2 + 2 H2O

Il solfuro di idrogeno è scarsamente solubile in acqua dove si dissocia secondo gli equilibri:

H2S + H2O ⇌ HS- + H3O+    Ka1 = 1.1 ∙ 10-7

HS- + H2O ⇌ S2- + H3O+    Ka1 = 1 ∙ 10-14

Il solfuro di idrogeno, in soluzione, viene comunemente detto acido solfidrico. Il solfuro di idrogeno è presente in natura nel petrolio greggio, nel gas naturale, e in alcune sorgenti termali ed è prodotto dalla degradazione batterica di materiali organici e dei rifiuti umani, animali e dai solfobatteri. Il solfuro di idrogeno, oltre ad essere presente nel petrolio naturale, può essere ottenuto nell’ambito dei processi di idro-desulfurizzazione del petrolio. L’esposizione ad alte dosi di solfuro di idrogeno può provocare la morte istantanea mentre a basse dosi può causare disturbi neurologici, respiratori, motori e cardiaci.

Il solfuro di idrogeno fu ottenuto per la prima volta dal chimico svedese Carl Wilhelm Scheele vissuto nella seconda metà del ‘700 dalla reazione del solfuro di ferro (II) con un acido minerale secondo la reazione:

FeS + 2 HCl → H2S + FeCl2

e tuttora il solfuro di idrogeno può essere ottenuto, con la stessa reazione, in laboratorio utilizzando l’apparecchio di Kipp.

A causa della scarsa solubilità di molti solfuri, il solfuro di idrogeno viene usato nell’ambito dell’analisi chimica qualitativa per la precipitazione di ioni metallici appartenenti al secondo gruppo analitico.  In passato si procedeva a far gorgogliare il gas, prodotto nell’apparecchio di Kipp nella soluzione da analizzare. Tuttavia, stante la sua pericolosità, attualmente si preferisce aggiungere alla soluzione la tioacetammide che in acqua dà luogo alla formazione di acido solfidrico secondo la reazione:

CH3CSNH2 + 2 H2O ⇌ CH3COOH + NH3 + H2S

A livello industriale il solfuro di idrogeno può essere ottenuto ad alte temperature dalla reazione tra zolfo e un composto organico con una reazione del tipo:

C10H20 + 10 S → 10 C + 10 H2S

A livello industriale il solfuro di idrogeno viene usato per ottenere lo zolfo secondo le reazioni:

16 H2S + 8 SO2 → 3 S8 + 16 H2O

16 HNO3 + 24 H2S → 16 NO + 3 S8 + 32 H2O

Inoltre molti composti organici solforati come i tioli possono essere ottenuti dal solfuro di idrogeno: ad esempio il metantiolo può essere sintetizzato secondo la reazione:

CH3OH + H2S → CH3SH + H2O

Il grafene nelle batterie a ioni litio

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Il grafene è un materiale costituito da un singolo strato atomico di carbonio ed ha eccellenti proprietà meccaniche, elettriche e ottiche. Esso enormi potenzialità per essere utilizzato nei campi della fisica, chimica, informatica, e nella produzione di dispositivi sempre più innovativi.

La domanda crescente di articoli ad alta tecnologia ha indotto le maggiori case produttrici ad investire nella ricerca che viene quotidianamente aggiornata da scoperte rivoluzionarie che contribuiscono alla realizzazione di prodotti innovativi e performanti.

Uno dei principali settori della ricerca è lo studio di nuove fonti di energia e di dispositivi atti a immagazzinarla. Finora le batterie a ioni di litio hanno costituto un prodotto innovativo con molteplici vantaggi rispetto alle batterie convenzionali tra cui la leggerezza, l’elevata densità di carica, l’assenza dell’effetto memoria, autoscarica trascurabile, scarso impatto ambientale, massima potenza di spunto all’avviamento, ricarica rapida. Tali vantaggi hanno fatto sì che le batterie a ioni di litio soppiantassero quelle al nichel o al nichel-cadmio nei telefoni cellulari, nei computer portatili e in ogni altro dispositivo che necessita di batteria.

Nelle batterie a ioni litio gli ioni Li+ durante la fase di scarica si muovono dall’elettrodo negativo a quello positivo mentre il processo inverso si verifica durante la fase di carica. Il catodo è comunemente costituito da composti del litio come LiCoO2,LiMn2O4 e LiFePO4, Li3V2(PO4)3 mentre l’anodo è fatto di grafite, ossidi di stagno e ossidi di metalli di transizione.

Tali materiali presentano comunque degli inconvenienti che ne limitano l’uso: ad esempio i materiali contenenti carbonio hanno una bassa carica iniziale, quelli a base di ossidi di stagno presentano una perdita di capacità.

Una delle soluzioni a tali problemi consiste nello sviluppare nuovi materiali che possano costituire nuovi elettrodi nelle batterie a ioni di litio.

Lo studio si è pertanto rivolto al grafene che mostra stabilità chimica e alta conduttività elettrica. Il grafene è una forma allotropica del carbonio il cui spessore corrisponde a quello di un atomo dove il carbonio è ibridato sp2. Il grafene è l’elemento strutturale di base di alcune forme allotropiche del carbonio tra cui grafite, nanotubi di carbonio e fullerene. Questo materiale bidimensionale che ha un’area superficiale specifica di 2600 m2/g con la sua struttura a nido d’ape può aumentare la capacità di stoccaggio del litio. Inoltre la sua alta mobilità elettronica, la eccezionale conduttività termica, le eccellenti proprietà meccaniche, unitamente alla stabilità chimica rendono il grafene una sostanza ideale per materiali compositi per gli elettrodi che permettono un maggiore immagazzinamento di ioni litio e quindi una vita maggiore.

Nelle batterie tradizionali a ioni litio il materiale maggiormente usato quale catodo è LiMn2O4 per il suo basso costo e per la sua compatibilità ambientale sebbene abbia una bassa conduttività elettrica. Recenti pubblicazioni hanno dimostrato che fogli di grafene ne aumentano la conduttività. Il miglioramento delle proprietà elettrochimiche è attribuito alla maggiore velocità di diffusione dello ione litio.

Il grafene che fornisce nuove possibilità nel campo delle batterie a ioni litio per il suo basso peso, l’elevata conduttività elettrica, l’incredibile flessibilità e stabilità chimica può essere usato anche nell’anodo. L’aggiunta di grafene ai materiali usati come anodo conferisce una maggiore conduttività elettrica, alta area superficiale, elevato rapporto superficie-volume, spessore ultrasottile che diminuisce la distanza di diffusione degli ioni e flessibilità della struttura che apre la strada alla costruzione di elettrodi flessibili con stabilità termica e elettrica che garantisce una maggior durata della batteria.

Idrazoni

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Gli idrazoni sono composti organici che hanno formula generale R1R2C=N-NH2 e possono essere considerati come derivanti da aldeidi o chetoni per sostituzione dell’ossigeno con il gruppo funzionale N-NH2. Gli idrazoni vengono denominati a partire dal composto carbonilico di partenza facendo seguire al nome dell’aldeide o del chetone il termine idrazone.

Pertanto il composto

propanal idrazone

si chiama propanal idrazone.

Gli idrazoni sono fisiologicamente attivi e trovano applicazione nel trattamento di malattie come la tubercolosi, la lebbra e i disturbi mentali. Gli idrazoni agiscono anche come erbicidi, insetticidi, nematocidi, rodenticidi e regolatori di crescita delle piante.

Un idrazone presenta, nell’ambito della molecola, un gruppo imminico (>C=N-), un gruppo amminico (-N-H2),  un carbonio imminico, la possibilità di isomeria configurazionale a causa dell’impossibilità di rotazione intorno al doppio legame e, la possibilità che sia presente un idrogeno acido.

Il carbonio imminico può agire sia da elettrofilo che da nucleofilo. Infatti a causa della differenza di elettronegatività tra carbonio e azoto il legame è polare e il carbonio ha una parziale carica positiva e quindi può agire da elettrofilo. D’altra parte l’azoto imminico ha un doppietto elettronico solitario ed è legato tramite un doppio legame al carbonio quindi può condurre un attacco nucleofilo.

idrazoni

A causa della sua versatilità un idrazone può dar luogo a una serie di reazioni giocando un ruolo fondamentale.

Gli idrazoni reagiscono con lo iodio molecolare in presenza di una base non nucleofila per dare un composto vinilico.

vinilico

Altre reazioni che producono composti vinilici sono la reazione di Shapiro e la reazione di Bamford-Stevens.

I fenilidrazoni per riscaldamento e in presenza di acido solforico danno un indolo.

Essi inoltre, spesso generati in situ, costituiscono gli intermedi di molte reazioni come la riduzione di Wolff–Kishner.

Facendo reagire un β-chetoacido o un β-chetoestere e un sale di arildiazonio in ambiente basico. Tale reazione detta di Japp–Klingemann è rappresentata in figura:

Japp–Klingemann

Gli idrazoni vengono inoltre sintetizzati dalla reazione di aldeidi o chetoni con idrazina:

idrazoni

 

Immine

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Le immine sono composti organici caratterizzate dalla presenza del gruppo funzionale > C=N- e sono gli analoghi azotati di aldeidi e chetoni pertanto si distinguono in aldimmine e chetimmine. Le immine rivestono un ruolo importante nell’ambito della sintesi organica poiché la formazione di un’immina e la successiva riduzione consente l’introduzione dell’azoto in una molecola.

Sono accomunate alle ossime e agli idrazoni in quanto presentano in comune il gruppo funzionale > C=N-

Le aldimmine possono essere primarie e hanno formula generale R-CH=NH o secondarie e hanno formula generale R-CH=N-R’che vengono anche dette basi di Schiff; le chetimmine possono essere primarie e hanno formula generale RR’C=N-H o secondarie e hanno formula generale RR’C=N-R’’.

Nel caso di aldimmine primarie e di chetimmine primarie esse vengono denominate considerando la catena più lunga di atomi di carbonio aggiungendo il suffisso immina indicandone la posizione quindi il composto CH3CH=NH si chiama etanimmina, il composto CH3(CH2)5NH si chiama esan-1-immina, il composto (CH3)2C=NH si chiama propan-2-immina. Nel caso di aldimmine e  di chetimmine secondarie va specificato il gruppo legato all’azoto quindi CH3-CH=NCH3 si chiama N-metil-etanammina.

Le immine vengono generate in situ e costituiscono gli intermedi di molte sintesi organiche come la reazione di Hoesch in cui dalla reazione tra un nitrile e un arene si ottiene un arilchetone o la reazione di Eschweiler–Clarke in cui avviene la metilazione di un’ammina primaria o secondaria in presenza di acido formico e formaldeide.

Sintesi.

Le immine vengono sintetizzate dalla reazione di aldeidi o chetoni con ammine primarie in ambiente acido. Nel primo stadio della reazione avviene la protonazione dell’ossigeno presente nell’aldeide o nel chetone seguito dall’attacco nucleofilo dell’azoto amminico al carbonio carbonilico. Nell’intermedio formato si ha un transfer di un idrogeno dall’azoto amminico all’ossigeno e successiva eliminazione di una molecola di acqua con formazione di uno ione imminio dalla cui deprotonazione di ottiene l’immina:

immina

Le immine possono essere ottenute dalla reazione di Schmidt dalla reazione tra un alcol terziario con triazoturo di idrogeno in presenza di acido solforico:

reazione di Schmid

Anche gli alcheni in ambiente acido possono reagire con il triazoturo di idrogeno con ottenimento di un’alchilazide che per riarrangiamento dà un’immina:

immine

La reazione più importante delle immine è l’idrolisi in ambiente acido con formazione di un’ammina e di un composto carbonilico

idrolisi

Stechiometria delle reazioni. Esercizi

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Vengono proposti esercizi di livelli semplice in cui viene richiesto di calcolare la quantità di un prodotto di reazione partendo da una certa quantità di reagente e viceversa.

La strategia per risolvere esercizi di questo genere consiste nel seguire i seguenti passaggi:

1)      Bilanciare la reazione

2)      Convertire i grammi di reagente (o prodotto) in moli tramite il peso atomico o molecolare

3)      Determinare il numero di moli del prodotto (o reagente) dai coefficienti stechiometrici

4)      Convertire le moli del prodotto (o del reagente) in grammi tramite il peso atomico o molecolare

Esercizi

 

1)      Dalla decomposizione termica del carbonato di calcio si ottiene ossido di calcio e anidride carbonica secondo la reazione: CaCO3 → CaO + CO2. Calcolare la massa di CO2 che si ottiene a partire da 1.5 ∙ 103 Kg di carbonato di calcio.

Poiché la reazione è già bilanciata passiamo direttamente allo step 2) convertendo la massa di CaCO3 in moli tramite il peso molecolare che è pari a 100.09 g/mol e tenendo conto che la massa del carbonato di calcio è espressa in Kg

Il peso molecolare di CaCO3 è pari a 100.09 g/mol

Moli di CaCO3 = 1.5 ∙ 106 g/100.09 g/mol= 1.5 ∙ 104

Il rapporto stechiometrico tra CaCO3 e CO2 è di 1:1 quindi le moli di CO2 sono pari a 1.5 ∙ 104

Il peso molecolare di CO2 è di 44.01 g/mol

Massa di CO2 = 1.5 ∙ 104 x 44.01 g/mol = 6.6 ∙ 105 g

2)      Il ferro reagisce con l’ossigeno per dare ossido di ferro (III) secondo la reazione (da bilanciare):

Fe + O2 → Fe2O3. Determinare i grammi di ossido di ferro (III) che si ottengono a partire da 16.7 g di ferro in eccesso di ossigeno

Per chi ha difficoltà a bilanciare questa reazione si suggerisce di notare che a destra gli atomi di ossigeno sono 3 mentre a sinistra sono 2. Poiché il numero di atomi di ossigeno deve essere uguale sia a destra che a sinistra antepongo al Fe2O3 il coefficiente 2 in modo che a destra il numero di atomi di ossigeno diventi pari a 3 x 2 = 6

Fe + O2 → 2 Fe2O3

A questo punto a destra vi sono 2 x 2 = 4 atomi di ferro e quindi antepongo il coefficiente 4 davanti a Fe:

4 Fe + O2 →2 Fe2O3

Ora non resta che bilanciare l’ossigeno: a destra ve ne sono 6 mentre a sinistra ve ne sono 3 quindi, poiché a sinistra l’ossigeno è presente come O2 antepongo il coefficiente 3 davanti aO2 e così la reazione è bilanciata:

4 Fe + 3 O2 →2 Fe2O3

Dopo aver bilanciato la reazione si passa allo step 2): ovvero si convertono i grammi di ferro in moli tramite il peso atomico:
moli di Fe = 16.7 g /55.847 g/mol= 0.299

Dai coefficienti stechiometrici si ha che da 4 moli di Fe si ottengono 2 moli di Fe2O3 quindi il rapporto è di 4:2 ovvero di 2:1

Moli di Fe2O3 = 0.299/2 =0.150

Il peso molecolare di Fe2O3 è di 159.691 g/mol

La massa di Fe2O3 che si ottiene è quindi:

massa di Fe2O3 = 0.150 mol x 159.691 g/mol=24.0 g

3)      Il glucosio reagisce con l’ossigeno per dare anidride carbonica e acqua secondo la reazione da bilanciare C6H12O6 + O2 → CO2 + H2O. Calcolare la quantità do CO2 che si ottiene da 45.0 g di glucosio.

Per bilanciare la reazione si tiene conto del fatto che il glucosio contiene 6 atomi di carbonio e quindi si otterranno 6 molecole di CO2; inoltre poiché il glucosio contiene 12 atomi di idrogeno si otterranno 12/2 = 6 molecole di acqua.

C6H12O6 + O2 → 6 CO2 + 6 H2O

Gli atomi di ossigeno presenti a destra sono: 6 x 2 = 12 dovuti a CO2 e 6 dovuti a H2O per un totale di 18. A sinistra ve ne sono 6 quindi se ne devono aggiungere 18 – 6 = 12 e poiché a sinistra l’ossigeno è presente come O2 antepongo il coefficiente 12/2 = 6 davanti all’ossigeno e così la reazione è bilanciata:

C6H12O6 +6 O2 → 6 CO2 + 6 H2O

Dopo aver bilanciato la reazione si passa allo step 2): ovvero si convertono i grammi di glucosio in moli tramite il peso molecolare che è pari a 180.16 g/mol:

moli di glucosio = 45.0 g/ 180.16 g/mol= 0.250

Dai coefficienti stechiometrici si ha che da 1 mole di glucosio se ne ottengono 6 di CO2 pertanto le moli di glucosio sono pari a:

moli di CO2 = 0.250 mol  x  6 = 1.50

Il peso molecolare di CO2 è di 44.01 g/mol

La massa di CO2 che si ottiene è quindi:

massa di CO2 = 1.50 mol x 44.01 g/mol=66.0 g

4)      Il solfuro di mercurio reagisce con l’ossido di calcio per dare mercurio, solfuro di calcio e acido solforico secondo la reazione (da bilanciare) : HgS + CaO → Hg + CaS + CaSO4. Calcolare la massa di ossido di calcio necessaria per ottenere 36.0 g di Hg.

Per poter bilanciare la reazione si tiene conto del fatto che a destra vi sono 4 atomi di ossigeno pertanto si antepone il coefficiente 4 davanti a CaO.

HgS +4 CaO → Hg + CaS + CaSO4

Conseguentemente poiché a sinistra vi sono 4 atomi di Ca anteponiamo mentre a destra ce n’è 1 davanti a CaS il coefficiente 3:

HgS + 4 CaO → Hg +3 CaS + CaSO4

A destra vi sono 3 + 1 = 4 atomi di S pertanto anteponiamo il coefficiente 4 davanti a HgS e conseguentemente anche davanti ad Hg e così la reazione è bilanciata:

4 HgS +4 CaO →4 Hg +3 CaS + CaSO4

Dopo aver bilanciato la reazione si passa allo step 2): ovvero si convertono i grammi di Hg in moli tramite il peso atomico:

moli di Hg = 36.0 g/200.59 g/mol = 0.179

Dai coefficienti stechiometrici si ha che da 4 moli di CaO si ottengono 4 moli di Hg quindi il rapporto è di 4:4 ovvero di 1:1.

Moli di CaO = 0.179

Poiché il peso molecolare di CaO è pari a 56.08 g/mol si ha che la massa di CaO necessaria è pari a:

massa di CaO = 0.179 mol x 56.08 g/mol = 10.0 g

5)      Il nitrato di piombo si decompone in ossido di piombo, biossido di azoto e ossigeno secondo la reazione (da bilanciare) Pb(NO3)2 → PbO + NO2 + O2. Calcolare i grammi di ossigeno ottenuti quando si sono formati 11.5 g di NO2

Per bilanciare la reazione si tiene conto che a sinistra vi sono 2 atomi di azoto quindi, poiché a destra ce n’è uno solo si antepone il coefficiente 2 davanti a NO2

Pb(NO3)2 → PbO +2 NO2 + O2

A questo punto a destra vi sono 1 + 2(2) + 2 = 7 atomi di ossigeno mentre a sinistra ce ne sono 3 x 2 = 6.

Anteponiamo 2 davanti a Pb(NO3)2 e quindi aggiustiamo i coefficienti a destra anteponendo 2 davanti a PbO e 4 davanti a NO2 e la reazione risulta così bilanciata:

2 Pb(NO3)2 → 2 PbO +4 NO2 + O2

Passiamo quindi allo step 2) calcolando le moli di NO2 il cui peso molecolare è di 46.0 g/mol

Moli di NO2 = 11.5 g/ 46.0 g/mol=0.250

Il rapporto tra NO2 e O2 è di 4:1 quindi le moli di O2 sono pari a:

moli di O2 = 0.250/4 =0.0625

Tenendo conto che il peso molecolare di O2 è di 31.998 g/mol convertiamo le moli in grammi:

massa di O2 = 0.0625 mol x 31.998 g/mol=2.00 g


Celle solari leggere come bolle di sapone

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Gli scienziati di tutto il mondo rivolgono i loro studi nell’ambito dell’ottenimento di nuovi materiali che possano sostituire quelli usati in precedenza perché hanno costi minori, oppure presentano un minore impatto ambientale o perché hanno delle caratteristiche tecnologiche innovative. Tra i gruppi di ricerca più accreditati al mondo vi è il MIT presso il quale gli scienziati, avvalendosi delle migliori tecnologie, lavorano in team e con impressionante cadenza pubblicano scoperte innovative e spesso incredibili.

Da una pubblicazione del 25 febbraio si legge che i ricercatori del MIT hanno ottenuto le celle solari più sottili e leggere mai realizzate.  Per dimostrare quanto sottili e leggere siano le celle, i ricercatori ne hanno messa una su una bolla di sapone, senza che questa si sia rotta.

Sebbene siano necessari anni prima che si possa giungere a un prodotto ad uso commerciale se ne comprende l’importanza per i dispositivi portatili del futuro. Il professor Vladimir Bulović docente di tecnologie innovative della Scuola di Ingegneria del MIT, e il suo team spigano che la chiave del nuovo approccio consiste nell’ottenere in un unico processo la cella solare, il substrato che la sostiene, e la ricopertura protettiva per proteggerla dall’ambiente. Il passaggio rivoluzionario consiste nel far accrescere il substrato contemporaneamente al dispositivo.

Nell’esperimento effettuato è stato usato sia come substrato che come copertura il polimero parilene costituito da poliparaxylene

parilene

e il dibutilftalato (DPB) per le sue qualità fotoassorbenti.

Il parilene è comunemente usato come materiale di rivestimento che ha la caratteristica di essere straordinariamente sottile e chimicamente inerte ed è utilizzato per proteggere i dispositivi biomedici impiantati e i circuiti stampati dai danni ambientali.

L’intero processo avviene a temperatura ambiente in una camera a vuoto senza l’uso di solventi; sia il substrato che la cella solare si accrescono con la tecnica della deposizione da vapore; si tenga presente che attualmente le celle solari vengono fatte ad alte temperature e con l’uso di prodotti chimici.

Il team sottolinea che i materiali usati per la realizzazione delle selle solari sono solo degli esempi e che l’innovazione è dovuta al processo di ottenimento delle celle: potrebbero, infatti, essere utilizzati altri tipi di materiali anche perché si ritiene che questa cella potrebbe essere troppo sottile per scopi pratici; film di parilene fino a 80 micron possono essere facilmente depositati su altri supporti come il vetro prima di essere staccato. Le celle solari ottenute hanno lo spessore di un millesimo rispetto alle celle solari attualmente utilizzate ma sono in grado di trasformare la luce solare in elettricità con la stessa capacità con il rapporto peso-potenza più alto mai raggiunto.

Nonostante  occorrano ancora molti studi questa ricerca apre nuove frontiere allo sviluppo della tecnologia.

Deposizione chimica da vapore

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La deposizione chimica da vapore (CVD) è un processo chimico attraverso il quale si ottengono materiali solidi e viene spesso usato nel settore fotovoltaico, della miniaturizzazione ed integrazione dei dispositivi elettronici ma anche in schermature elettromagnetiche, rivestimenti protettivi e coperture biocompatibili. Nella deposizione chimica un substrato viene esposto a uno o più precursori volatili che reagiscono o si decompongono per dare un prodotto che si deposita sul substrato. Eventuali sottoprodotti vengono allontanati da un flusso di gas che attraversa la camera di reazione.

I gas precursori, abitualmente diluiti in gas inerti trasportatori vengono inviati nella camera di reazione a temperatura ambiente e, quando entrano in contatto con il substrato riscaldato reagiscono o si decompongono dando una fase solida che si deposita sul substrato.

cvd

I gas precursori devono essere volatili ma sufficientemente stabili da poter essere inviati al reattore e devono essere tali da consentire il deposito di un solo elemento o composto sul substrato mentre gli altri composti derivanti dalla decomposizione o dalla reazione devono essere gassosi in modo da poter essere allontanati. Tali gas che possono essere tossici, infiammabili o corrosivi devono essere quindi opportunamente trattati.

Tra gli esempi più significativi di reazioni utilizzate nella deposizione chimica vi sono:

SiH4(g) + O2(g) → SiO2(s) + 2 H2(g)

4 PH3(g) + 5 O2(g) → P2O5(s) + 6 H2(g)

3 SiH4(g) + 4 NH3(g) → Si3N4(s) + 12 H2(g)

WF6(g) + 3 H2(g) → W + 6 HF(g)

Nella deposizione chimica da vapore i materiali precursori vengono abitualmente classificati nelle seguenti categorie:

1)      Alogenuri: TiCl4, TaCl5, WF6 ecc.

2)      Idruri: SiH4, GeH4, AlH3 ecc.

3)      Composti metallorganici

4)      Alcossidi metallici

5)      Alchil-metallo

6)      Metallo-carbonili

7)      Altri ovvero composti metallorganici, complessi ecc.

Una delle maggiori applicazioni della deposizione chimica da vapore consiste nel rivestimento di adeguati supporti con silicone policristallino ad elevata purezza usato nelle celle fotovoltaiche che può essere ottenuto tramite una serie di reazioni:

SiH4(g) → Si(s) + 2 H2(g)

SiCl4(g) + 2 H2(g) → Si(s) + 4 HCl(g)

SiH2Cl2 (g) → Si(s) + 2 HCl(g)

SiHCl3 (g) + H2(g) → Si(s) + 3 HCl(g)

Solfuro di mercurio

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Il solfuro di mercurio (II) ha formula HgS, è un solido cristallino di colore rosso vermiglio praticamente insolubile in acqua contenuto nel cinabro, minerale da cui per arrostimento e successiva condensazione, si ottiene il mercurio.

Il cinabro detto anche vermiglione un pigmento colorato fin dal 1500 a.C. in Cina ottenuto dopo aver polverizzato la roccia e aver sottoposto la polvere a numerosi lavaggi.

Il cinabro era usato già ai tempi dell’impero romano come pigmento e cosmetico oltre che per l’estrazione del mercurio. Anche altri popoli in regioni più lontane hanno spesso usato questo minerale come pigmento come i Maya i Cinesi ed altri popoli asiatici. Parrebbe che il rosso pompeiano traesse origine dal cinabro presente nell’area vesuviana.

Il solfuro di mercurio è dimorfico e si presenta sotto due forme cristalline:

1)      Rosso cinabro α-HgS che ha struttura trigonale

2)      Nero metacinabro β-HgS poco comune con struttura cubica

Quest’ultimo può essere ottenuto dalla reazione tra un sale di mercurio (II) in cui viene fotto gorgogliare il solfuro di idrogeno:

Hg2+ + H2S→ HgS + H2

Il solfuro di mercurio rosso può essere ottenuto con una resa pressoché quantitativa dalla reazione tra acetato di mercurio e solfuro di idrogeno in presenza di un eccesso di tiocianato di ammonio NH4NCS secondo la reazione:

Hg(CH3COO)2 + H2S→ HgS + 2 CH3COOH

In alternativa all’acetato di mercurio può essere usato il cloruro di mercurio (II) ma il prodotto ottenuto ha un colore meno brillante.

La formazione del cinabro è dovuta ai processi magmatici teletermali nei pressi dei vulcani, principalmente nelle vene di acque termali profonde a temperatura inferiore ai 100 °C ricche in minerali e da vene magmatiche superficiali fredde.

Il cinabro a causa dell’elevato contenuto di mercurio è un minerale tossico e dannoso per l’uomo e l’ambiente pertanto, nonostante il mercurio sia stato utilizzato nei campi più svariati nel corso dei millenni, gli organismi internazionali sono impegnati alla sua progressiva eliminazione dai cicli produttivi quali, ad esempio, la preparazione industriale della soda caustica in cui il metodo della cella a diaframma viene preferito al metodo della soda al mercurio.

Già dagli anni ’70 le quotazioni del mercurio si contrassero di conseguenza di oltre il 50% con la chiusura di molte miniere di cinabro.

Monossido di diazoto

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Il monossido di diazoto detto anche protossido di azoto, noto come gas esilarante per via dei suoi effetti euforizzanti, è un gas non infiammabile, stabile a temperatura ambiente, incolore dal tipico odore dolciastro avente formula N2O, usato in campo medico per usi anestetici oltre che per i suoi effetti analgesici.

Ha formula N2O e la sua struttura è un ibrido tra le due forme limite di risonanza:

N2O risonanza

Il monossido di diazoto fu scoperto nel 1772 dal chimico e filosofo inglese Joseph Priestley ma fu solo verso la fine del secolo che un altro chimico inglese Sir Humphry Davy ne scoprì gli effetti anestetici provandolo su sé stesso.

Alti livelli di N2O possono provocare vertigini ed euforia e, interagendo con la vitamina B12, ne causa l’inattivazione.

Il monossido di diazoto appartiene al gruppo delle droghe dissociative ovvero a quelle sostanze che, inizialmente utilizzate come anestetici generali in chirurgia, producono distorsioni delle percezioni visive e sonore e sensazioni di distacco dall’ambiente e da sé stessi. Consumato tramite inalazione da palloncini o simili il monossido di diazoto può provocare nausea e mal di testa.  Un consumo eccessivo e non appropriato causa perdite di coscienza, crollo della pressione arteriosa, aritmia cardiaca e, nel peggiore dei casi, decesso a seguito di una paralisi respiratoria.

Il suo utilizzo cronico può provocare polineuropatia e altre degenerazioni delle cellule nervose.

Il monossido di diazoto è presente naturalmente nell’atmosfera in quanto, tra l’altro, esso rientra nel ciclo dell’azoto con cui l’azoto si muove tra l’atmosfera, il terreno e gli esseri viventi. Tuttavia, le attività umane quali l’agricoltura, le combustioni, il trattamento delle acque reflue e i processi industriali, ne provocano un notevole incremento. Dal 1750, data di inizio della rivoluzione industriale, ad oggi il livello nell’atmosfera di monossido di diazoto è notevolmente aumentato.

Nel campo dell’agricoltura la formazione del monossido di diazoto è dovuta all’uso di fertilizzanti azotati che stimolano i batteri a trasformare l’azoto in N2O e alle deiezioni prodotte dagli allevamenti.

Il monossido di diazoto è un sottoprodotto che si ottiene da una combustione che avviene con l’utilizzo dell’aria e quindi viene ottenuto dai motori delle automobili e dalle centrali termoelettriche.

Il monossido di diazoto si ottiene inoltre come sottoprodotto nell’ambito del processo Ostwald per la produzione di acido nitrico e, come sottoprodotto nella sintesi dell’acido adipico.

Il monossido di diazoto è un gas a effetto serra con un potere di circa 300 volte maggiore della CO2 di trattenere il calore con conseguente innalzamento della temperatura della terra.

Il monossido di diazoto, inoltre, reagisce con l’ossigeno per dare monossido di azoto secondo la reazione:

2 N2O + O2 → 4 NO

Il monossido di azoto prodotto, a sua volta, reagisce con l’ozono secondo la reazione:

NO + O3 → NO2 + O2

e quindi costituisce una specie che contribuisce all’assottigliamento dello strato di ozono che è uno schermo fondamentale per l’intercettazione di radiazioni U.V. letali per la vita sulla terra.  L’ossido di diazoto, quindi, oltre a essere un potente gas serra ha l’ulteriore effetto di contribuire a distruggere lo strato di ozono.

Sintesi

Il monossido di diazoto viene ottenuto per riscaldamento ad una temperatura tra i 170 e i 240°C del nitrato di ammonio che si decompone secondo la reazione:

NH4NO3(s) → N2O(g) + 2 H2O(aq)

Il monossido di diazoto viene ottenuto inoltre per ossidazione dell’ammoniaca in presenza di un catalizzatore costituito da biossido di manganese e ossido di bismuto:

2 NH3 + 2 O2 → N2O + 3 H2O

Usi

Il monossido di diazoto viene usato nei motori dei razzi come comburente grazie alla mancanza di tossicità e alla sua stabilità. Viene utilizzato anche come additivo nei motori a combustione interna: alle alte temperature e pressioni, presenti all’interno del cilindro, il protossido d’azoto rilascia ossigeno che contribuisce a una maggiore potenza di detonazione della benzina poiché si comporta, indirettamente, da comburente.

L’ossido di diazoto viene usato, in miscela con l’ottafluorociclobutano, come propellente per aerosol di prodotti alimentari ed in particolare per la panna spray e prodotti alimentari pressurizzati.

 

Ciclo dello zolfo

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Lo zolfo si trova in natura sia allo stato elementare sia in quello combinato principalmente come solfuro in particolare sotto forma di pirite FeS2 e solfato ad esempio sotto forma di CaSO4 ed è presente nelle esalazioni vulcaniche come solfuro di idrogeno e biossido di zolfo oltre che in molti tipi di petrolio. Lo zolfo ricopre una importanza particolare nell’ambito della biochimica essendo presente in alcuni amminoacidi e vitamine ma gioca un ruolo importante a livello biologico anche nel sistema di trasporto degli elettroni nel corpo, sulla tiamina e sulla biotina, nella sintesi di intermedi metabolici, nella corretta funzione dell’insulina.

Il ciclo dello zolfo riguarda i processi che avvengono nelle varie forme in cui esso è presente nell’ambiente compreso quello presente nell’atmosfera dove composti dello zolfo vi giungono oltre che dalle eruzioni vulcaniche e dalle attività umane anche dai batteri del genere Thiobacillus che ossidano lo zolfo inorganico a solfato ottenendo energia per il loro organismo.

Gli steps del ciclo dello zolfo sono:

  • mineralizzazione dei composti organici dello zolfo in forma inorganica. Lo zolfo, che si trova si trova in prevalenza in amminoacidi, solfati organici, esteri solfonici di glucidi e lipidi, nel processo di mineralizzazione viene trasformato in zolfo inorganico ed in particolare in solfuro.
  • ossidazione del solfuro e dello zolfo elementare a solfato con reazioni del tipo S2- + 2 O2 → SO42-.

L’idrogeno solfuro viene ossidato ad opera di microrganismi presenti sia nel suolo che nelle acque che, grazie alla presenza di pigmenti in essi contenuti, dapprima demoliscono il solfuro di idrogeno in condizioni anaerobiche secondo la reazione:

2 H2S + CO2 → HCHO + H2O + S2

La molecola S2 può essere ossidata a ione solfato dai microrganismi secondo la reazione:

S2 + 3 O2 → 2 SO42- + 4 H+

  • riduzione assimilativa del solfato. Nel solfato infatti lo zolfo ha il suo numero di ossidazione più alto e si riduce a +2 e si riduce a solfuro metantiolo e dimetilsolfuro che contengono lo zolfo nello stato di ossidazione -2. Il solfato presente nel suolo può essere assimilato da piante e microrganismi o entra a far parte delle numero di ossidazione. Il solfato viene ridotto a solfuro ad opera di solfobatteri diminuendo, tuttavia, la quantità di zolfo presente necessario per la nutrizione delle piante ed infatti tale processo è poco favorevole alla fertilità del suolo e conseguentemente alla produzione agricola.

Il solfuro di idrogeno successivamente viene ossidato nell’atmosfera, prima ad anidride solforosa SO2 e poi completamente ad acido solforico o in un sale contenente lo ione solfato.

Potassio t-butossido

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Il potassio t-butossido  (CH3)3COK noto anche come 2-metil,2-propanossido di potassio è la base coniugata del 2-metil, 2-propanolo

CH3)3COK

Viene ottenuto dalla reazione tra il 2-metil, 2-propanolo e il potassio:

2 K + 2 (CH3)3COH → 2 (CH3)3COK + H2

Tuttavia, il genere, il potassio t-butossido viene in genere preparato in situ in quanto rapidamente idrolizza all’aria per dare idrossido di potassio e butanolo:

(CH3)3COK + H2O → (CH3)3COH + KOH

Tale reazione non modifica l’aspetto del potassio t-butossido e quindi risulta impossibile rilevare se la reazione ha avuto luogo.

A causa del suo ingombro sterico il t-butossido è un nucleofilo molto più debole rispetto agli alcossidi meno ingombrati quindi non può essere usato nelle reazioni di sostituzione SN2 o nella reazione di Williamson per ottenere un etere.

Il potassio t-butossido  è una base forte altamente selettiva nei confronti dei protoni ed è quindi appartiene alla categoria delle superbasi ovvero “spugne di protoni” che , essendo impedite stericamente, riescono a legare solamente lo ione H+ che è estremamente piccolo e nessun altro tipo di catione. Il potassio t-butossido viene pertanto usato nelle reazioni organiche di deprotonazione.

Il potassio t-butossido gioca un ruolo particolarmente importante nelle reazioni di eliminazione: secondo la regola di Zaitsev, infatti, in una reazione di eliminazione che porta ad un alchene quello che si forma in quantità maggiore è quello più stabile ovvero l’alchene più sostituito.

Così, ad esempio, il 2-bromobutano, in presenza di CH3CH2O- dà, come prodotto principale della reazione il 2-metilbutene, ovvero l’alchene più sostituito rispetto all’1-butene che costituisce un prodotto secondario della reazione

Zaitsev

Se l’alcossido usato, invece, è un debole nucleofilo ed è una base ingombrata come il potassio t-butossido ha luogo l’eliminazione di Hofmann con formazione dell’alchene meno sostituito quale prodotto principale della reazione:

hofman

Il potassio t-butossido , infatti, attacca preferenzialmente un atomo di idrogeno meno impedito e più facilmente raggiungibile

alchene meno sostituito

dando l’alchene meno sostituito.

Ammidine

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Le ammidine sono composti organici caratterizzati dal gruppo funzionale:

ammidine

e possono essere considerati come derivanti da un acido carbossilico in cui al posto del gruppo –OH vi è il gruppo –NH2 e al posto del gruppo > C=O vi è il gruppo >C=NR ed infatti vengono dette carbossiammidine.

Le ammidine sono più basiche delle ammidi infatti mentre la protonazione di un’ammide porta a uno ione stabilizzato da due forme limite di risonanza una delle quali presenta una carica positiva sull’ossigeno che quindi ha uno scarso contributo, nel caso delle ammidine lo ione protonato presenta due strutture equivalenti in cui vi è un azoto, meno elettronegativo dell’ossigeno, caricato positivamente.

basicità

Le ammidine sono basi forti altamente selettive nei confronti dei protoni ed è quindi appartengono alla categoria delle superbasi organiche.

Per ottenere il nome di un’ammidina si considera l’acido carbossilico da cui formalmente derivano sostituendo al suffisso –oico il suffisso –ammidina.

Pertanto il nome del composto

nomenclatura

è esanammidina in quanto formalmente derivante dall’acido esanoico.

Le ammidine vengono sintetizzate tramite la reazione di Pinner a partire da un nitrile e un alcol in presenza di HCl gassoso.

Alternativamente le ammidine possono essere ottenute dalla reazione di un nitrile in presenza di idrossilammina

ammidine

Le ammidine in cui sono presenti sostituenti sull’atomo di azoto, dette ammidine N-sostituite, vengono ottenute dalla reazione tra nitrili arilici e ammine primarie in quantità equimolecolari in presenza di cloruro di alluminio.

Le ammidine sono in genere poco stabili e sono sensibili all’umidità e al calore mentre i sali corrispondenti sono molto più stabili.

L’idrolisi delle ammidine, sia in ambiente acido che in ambiente basico, porta alla formazione delle ammidi corrispondenti.

Le ammidine vengono usate prevalentemente nelle sintesi organiche quali intermedi per ottenere composti eterociclici contenenti azoto come le pirimidine, gli imidazoli, gli ossiazoli e i tioazoli


Pirimidina

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La pirimidina è un eterociclo aromatico e fa parte, insieme alla piridazina e alla pirazina, delle diazine ovvero dei composti aventi tutti formula C4H4N2. Le diazine costituiscono infatti un gruppo di composti, isomeri tra loro, costituiti da un anello a sei termini in cui sono presenti 2 atomi di azoto in sostituzione di due atomi di carbonio. La pirimidina, nella fattispecie, presenta i due atomi di carbonio in posizione 1 e 3 ed è infatti detta 1,3 diazina.

pirimidina

La pirimidina è una base azotata e negli acidi nucleici sono presenti tre basi azotate di tipo pirimidinico ovvero citosina, timina e uracile.

La pirimidina è una base debole con una costante di dissociazione Kb dell’ordine di 10-12: nonostante la presenza di due atomi di azoto, essa è essenzialmente monobasica molto più debole della piridina. Rispetto a quest’ultima, infatti, la pirimidina presenta una minore stabilità del catione monoprotonato per l’effetto induttivo e mesomerico dovuto alla presenza del secondo atomo di azoto.

La presenza di due eteroatomi nell’anello benzenico provoca una distribuzione irregolare della densità elettronica e tale fenomeno provoca una notevole influenza in relazione alle proprietà fisiche e alla reattività. La presenza dell’azoto che ha un’elettronegatività maggiore del carbonio provoca un’attrazione degli elettroni presenti all’interno dell’anello e quindi la pirimidina può essere definita come deficiente di elettroni π. Risulta quindi che la sostituzione elettrofila aromatica risulta essere poco favorita mentre la sostituzione nucleofila aromatica è facilitata.

La pirimidina infatti reagisce infatti con l’idrazina a 130°C per dare il pirazolo.

Le reazioni di sostituzione elettrofila possono avvenire sul carbonio 5 in quanto esso è il meno deficiente di elettroni. Le pirimidine sostituite possono dare reazioni di nitrazione, nitrosazione, solfonazione e formilazione.

In presenza di peracidi la pirimidina dà una ossidazione sull’azoto e, per idrogenazione dà la tatraaidropirimidina.

La sintesi della pirimidina viene fatta a partire dai suoi derivati per rimozione di gruppi funzionali oppure per reazione di ciclizzazione di composti β-dicarbonilici come l’1,3-dichetone con un’ammidina
.

Il sistema ciclico della pirimidina è presente nella vitamina B1 costituita da un anello tiazolico e di uno pirimidinico uniti tra loro da un gruppo metilenico. Condensato con altri anelli eterociclici il sistema ciclico della pirimidina è presente nella struttura di composti naturali ovvero nei derivati della purina in cui vi sono un anello pirimidinico fuso con un anello di imidazolo e nei derivati della pterina formata dalla fusione di un anello pirimidinico  con uno della pirazina.

Dalla pirimidina derivano farmaci come alcuni sulfamidici, antimalarici, ipnotici e antitiroidei.

Riduzione di Clemmensen

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La riduzione di Clemmensen è una reazione organica in cui un gruppo carbonilico presente in aldeidi e chetoni viene ridotto a gruppo metilenico. La reazione avviene in presenza di un amalgama zinco-mercurio e acido cloridrico concentrato.

Clemmensen

Il substrato deve essere stabile in ambiente fortemente acido e, nell’ipotesi contraria, si procede in alternativa alla reazione di riduzione di Wolff-Kishner che avviene in ambiente basico.

La reazione fu messa a punto dal chimico danese Erick Clemmensen e viene utilizzata in particolar modo nella riduzione degli arilchetoni che si formano a seguito di un’acilazione di Friedel-Crafts.

La reazione è altamente specifica per il gruppo carbonilico pertanto in un chetoacido avviene solo la riduzione del gruppo chetonico:

C6H5COCH2CH2COOH → C6H5CH2CH2CH2COOH

e il gruppo carbossilico rimane inalterato.

Il meccanismo della riduzione di Clemmensen non è ancora stato compreso sebbene molti ritengono che la reazione avvenga tramite un intermedio carbanionico.

L’ossigeno del gruppo carbonilico viene dapprima protonato e si ha la rottura del doppio legame carbonio- ossigeno con formazione di un carbocatione a cui vengono ceduti due elettroni da parte dello zinco con formazione di un carbanione. In ambiente acido viene protonato sia il carbocatione che il gruppo –OH con conseguente fuoriuscita di acqua e formazione del carbocatione

Clemmensen

Nuovamente al carbocatione vengono ceduti due elettroni con formazione di  un nuovo carbanione che non contiene, rispetto a quello precedente, il gruppo –OH. La protonazione del carbanione, dovuta all’ambiente acido, porta alla formazione dell’alcano.

 

Nichel Raney

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Il Nichel Raney è un catalizzatore introdotto nel 1926 dall’ingegnere statunitense Murray Raney che lo adoperò nell’idrogenazione di oli vegetali.

Da allora questo catalizzatore, usato sia in polvere che in forma granulare è stato impiegato per numerosi processi di utilità industriale ed in particolare nelle reazioni di riduzione quali l’idrogenazione di composti insaturi e nella riduzione del legame C-S a legame C-H.

Il Nichel Raney è un catalizzatore eterogeneo e quindi deve presentarsi con una struttura porosa in modo che la catalisi avvenga sia sulla superficie esterna del catalizzatore sia sulla superficie interna.

Il Nichel Raney viene ottenuto a partire da una lega contenente nichel e allumino che viene trattata, tramite un processo detto di “attivazione” con idrossido di sodio concentrato che è in grado di allontanare la maggior parte dell’alluminio dalla lega grazie alla reazione:
2 Al + 2 NaOH  + 6 H2O → 2 Na[Al(OH)4] + 3 H2

in cui si forma il tetraidrossoalluminato di sodio e idrogeno gassoso. La lega in cui vi è il nichel, una piccola parte dell’alluminio inizialmente presente e idrogeno gassoso adsorbito diventa spugnosa ed ha un’elevata superficie di contatto.

A causa dell’elevata superficie e della presenza di idrogeno il Nichel Raney è un materiale piroforico che può incendiarsi a contatto con l’aria con produzione di fumi pericolosi pertanto va maneggiato in atmosfera inerte.

Successive ricerche hanno portato a considerare altri sistemi in cui insieme all’alluminio è presente rame, rutenio e cobalto ed inoltre l’aggiunta di un ulteriore metallo alla lega binaria può aumentare l’attività del catalizzatore.

Applicazioni

Il Nichel Raney viene usato nei processi industriali e nelle sintesi organiche grazie alla sua stabilità e alla sua elevata attività catalitica a temperatura ambiente.

Tra le più importanti applicazioni vi è la riduzione di legami multipli come, ad esempio, gli alchini, gli alcheni, i nitrili, i dieni ma anche i composti aromatici. Sebbene il benzene non sia una specie particolarmente reattiva nelle reazioni in cui viene a perdere la stabilizzazione per risonanza e quindi si riduca con difficoltà a cicloesano la reazione può essere effettuata in presenza di Nichel Raney a costi molto più contenuti rispetto alla stessa reazione condotta in presenza di palladio.

riduzione benzene

In presenza di un solvente come l’alcol il Nichel Raney catalizza la reazione di decomposizione dei tioeteri:
R-S-R’ → RH + R’H

Il gruppo carbonilico di un’un’aldeide o di un chetone può essere ridotto in presenza di 1,2-etanditiolo e di un acido di Lewis con formazione di un tiochetale che, per idrogenazione, in presenza di Nichel Raney dà l’alcano secondo la riduzione di Mozingo:

Mozingo

Tale reazione viene utilizzata per la riduzione di composti carbonilici sensibili agli acidi e alle basi per i quali non possono essere usate la riduzione di Clemmensen e la riduzione di Wolff-Kishner.

Nitrocomposti alifatici e aromatici vengono ridotti selettivamente ai corrispondenti derivati amminici con alte rese usando acido formico e Nichel Raney come, ad esempio, l’1-nitropropano dà la n-propilammina, il nitrobenzene dà l’anilina e il p-nitrobenzofenone dà il p-amminobenzofenone.

Acido adipico

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L’acido adipico il cui nome I.U.P.A.C. è acido esandioico è un acido bicarbossilico avente formula HOOC(CH2)4COOH che si presenta come un solido cristallino di colore bianco solubile in solventi polari come acqua, alcoli a basso peso molecolare e acetone. E’ un acido diprotico e pertanto in acqua dà luogo agli equilibri:

HOOC(CH2)4COOH + H2O ⇌ HOOC(CH2)4COO- + H3O+   Ka1= 3.89 ∙ 10-5

HOOC(CH2)4COO- + H2O ⇌ -OOC(CH2)4COO- + H3O+   Ka2 = 3.89 ∙ 10-6

Sintesi

1)      Il cicloesene viene ossidato dal permanganato di potassio per dare l’acido adipico

cicloesene

2)      Il benzene viene idrogenato in presenza di Nichel Raney con ottenimento del cicloesano che per ossidazione dà l’acido adipico.

benzene

3)      Carbonilazione del butadiene secondo la reazione:

CH2=CHCH=CH2 + 2 CO + 2 H2O → HOOC(CH2)4COOH

L’acido adipico è sempre più richiesto dall’industria per le sue applicazioni: contenendo infatti due gruppi funzionali esso può essere utilizzato nelle reazioni di polimerizzazione per policondensazione. La classe di polimeri in cui l’acido adipico è maggiormente usato è quella delle poliammidi ottenute per policondensazione di una diammina e di un acido bicarbossilico. In particolare il nylon 6,6 è ottenuto dalla policondensazione della esametilendiammina e dell’acido adipico.

L’acido adipico viene utilizzato, oltre che nella sintesi del nylon che assorbe circa il 90% della sua produzione, anche nella sintesi di altri polimeri come i poliesteri, le resine e gli additivi. Trova applicazioni anche come additivo alimentare in qualità di acidificante nelle gelatine dei dessert e nelle marmellate e come agente neutralizzante in altri alimenti in sostituzione degli acidificanti tradizionali come l’acido citrico e l’acido tartarico.

Il metodo maggiormente usato a livello industriale prevede:

4)      L’ossidazione con acido nitrico del cicloesanone che è in equilibrio tautomerico con la sua forma enolica, ad acido adipico

tautomeria

La maggior parte dei problemi ambientali legati a questo processo riguardano l’utilizzo dell’acido nitrico a causa delle grandi quantità di ossidi d’azoto sviluppati ed in particolare del monossido di diazoto, che influisce gravemente all’effetto serra e contribuisce all’assottigliamento dello strato di ozono che è uno schermo fondamentale per l’intercettazione di radiazioni U.V. letali per la vita sulla terra.

A seguito del secondo trattato discusso nel protocollo di Kyoto le aziende produttrici di acido adipico hanno dovuto istallare, dalla fine del 2000, sistemi per la rimozione degli ossidi di azoto che ne consentono la rimozione di circa il 90% del monossido di diazoto ma che comportano costi elevati.

Gli scienziati hanno quindi rivolto le loro ricerche allo studio di metodi alternativi per la sintesi dell’acido adipico ad alte rese e, tra le varie ipotesi formulate, è emergente quella che prevede l’utilizzo del cicloesene che viene ossidato da una soluzione al 30% di H2O2 in presenza di tungstato di sodio biidrato  Na2WO4∙ 2 H2O sciolto in Aquat 336 ovvero di un catalizzatore a trasferimento di fase che facilita il trasferimento del reagente da una fase all’altra quando avviene la reazione. L’ Aquat 336 è una miscela di sali di ammonio quaternari costituiti da 3 catene di 8 o di 10 atomi di carbonio legati all’azoto centrale che a sua volta è legato a un gruppo metilico (CH3(CH2)7)3N+CH3.

La Green Chemistry, il cui scopo è quello di prevenire l’inquinamento, riducendo o eliminando l’uso di prodotti e processi pericolosi, sostituendoli con altri ecocompatibili ed ecosostenibili rappresenta un nuovo modo di concepire la chimica e costituisce per i Chimici una nuova sfida a cui si sapranno rispondere con determinazione e coraggio.

“ Il fascino di una scienza che va crescendo sta nel lavoro dei pionieri che operano alle frontiere dell’ignoto, ma per raggiungere quelle frontiere bisogna percorrere strade molto battute”  Gilbert Newton Lewis

Piperidina

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La piperidina è un eterociclo a sei termini in cui è presente un atomo di azoto e cinque atomi di carbonio avente formula C5H11N

piperidina

ed è quindi un’ammina secondaria.

E’ uno degli eterocicli più semplici e si trova in natura in molti alcaloidi. Fu isolata per la prima volta dalla piperina, alcaloide che si trova nello strato superficiale dei frutti del pepe nero; può essere sintetizzata per idrogenazione della piridina in presenza di solfuro di molibdeno (IV) MoS2 che agisce da catalizzatore:

C5H5N + 3 H2 → C5H10NH

La piperidina è una base più forte dell’ammoniaca e l’equilibrio:

C5H10NH + H2O ⇌ C5H10NH2+ + OH-

è regolato da una Kb pari a 1.6 ∙ 10-3.

La piperidina, grazie al doppietto elettronico solitario presente sull’azoto è un buon nucleofilo e reagisce, ad esempio, con lo ione nitrosonio NO+ per dare l’N-nitrosopiperidina sostanza cancerogeno secondo la reazione:

C5H10NH + HNO2 → C5H10N-N=O + H2O

La piperidina viene largamente usata nella produzione clandestina ed illecita di fenciclidina (PCP) nota come “polvere d’angelo” sostanza con effetti allucinogeni che è vietata per la sua neurotossicità.

La reazione di un chetone come il cicloesanone con la piperidina in quantità equimolari dà luogo alla formazione di un’enammina. L’aggiunta di p-toluene anidro e bromuro di idrogeno dà luogo alla formazione di un addotto da cui può essere ottenuta la fenciclidina per reazione con un reattivo di Grignard

PCP

Il meccanismo dalla condensazione di un’aldeide o di un chetone con la piperidina avviene in più stadi:

Nel primo stadio avviene la protonazione dell’ossigeno legato al gruppo carbonilico con conseguente attivazione dello stesso in quanto esso diviene più suscettibile all’attacco di un nucleofilo quale l’azoto dell’ammina secondaria.

Nel secondo stadio avviene l’attacco dell’azoto al carbonio carbonilicocon rottura del legame π del doppio legame carbonio-ossigeno. L’azoto formando un legame dativo con il carbonio carbonilico si carica positivamente

Nel terzo stadio avviene la rimozione dell’idrogeno legato all’azoto che quindi diventa neutro con formazione di una carbinolammina

Nel quarto stadio avviene la protonazione dell’ossigeno

Nel quinto stadio viene interessato un idrogeno che si trova sul carbonio adiacente al carbonio legato ad –OH e a –NR2. Tale idrogeno viene rimosso con conseguente formazione di un doppio legame C=N e fuoriuscita di una molecola di acqua.

sintesi-enammine

Le enammine agiscono da nucleofili come gli enolati e possono essere usate al loro posto in molte reazioni.

La piperidina può reagire con l’ipoclorito di calcio Ca(ClO)2 per dare la clorammina C5H10NCl per deidroalogenazione produce una immina ciclica.

La piperidina viene usata come catalizzatore nelle condensazioni aldoliche ed in particolare nei processi di ciclizzazione.

La piperidina viene utilizzata nel sequenziamento del DNA ovvero per la determinazione dell’ordine dei diversi nucleotidi che costituiscono l’acido nucleico.

La piperidina e i suoi derivati hanno proprietà farmacologiche tra cui quelle analgesiche, e costituiscono i precursori di prodotti usati nell’agricoltura e nell’industria della gomma. I derivati della piperidina infatti vengono utilizzati quali acceleratori nel processo di vulcanizzazione e presentano il vantaggio di essere facilmente dispersi nella mescola

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