I pigmenti usati nell’antichità erano prevalentemente di origine naturale e venivano ottenuti tramite la macinazione di minerali, la calcinazione o cottura di sostanze animali o vegetali seguita da rudimentali processi chimici.
Un colore che nel tempo ha avuto una storia e un ruolo particolari è senza dubbio il blu ma l’ottenimento di pigmenti blu costituiva un problema sia perché non erano ottenibili per miscelazione di altri pigmenti in quanto il blu è un colore primario nella sintesi additiva, sia perché non sono erano minerali facilmente reperibili che contenevano un’elevata quantità di sostanze che potessero costituire una fonte di pigmenti di tale colore.
Nell’antico Egitto nacque una cultura scientifica che spaziava del campo dell’architettura che si manifestò attraverso la costruzione di dighe e bacini, di case fatte di argilla e mattoni, di imbarcazioni per trovare la sua massima manifestazione nelle piramidi, al campo medico e matematico.
Ma anche nel campo della chimica, non ancora intesa come scienza, gli Egizi non erano da meno: la ricerca di un pigmento blu che fu poi denominato blu Egiziano non fu un episodio accidentale, ma il frutto di un lavoro meticoloso.
Tale pigmento, che si ritiene sia il primo pigmento artificiale, si diffuse rapidamente nel bacino del Mediterraneo dove assunse il nome di blu ceruleo e della sua preparazione troviamo tracce nel “De architectura” di Vitruvio. I resti di tale pigmento sono stati trovati, tra l’altro, sulla statua della dea Iris sul Partenone e nel famoso affresco “Stagno in un giardino” nella tomba egizia di “Scriba e contatore di grano” di Nebamun a Tebe.
Le complessità della procedura con cui tale pigmento era stato ottenuto suggerisce che gli antichi Egizi avessero una buona comprensione delle reazioni chimiche e delle problematiche ad esse connesse.
Il blu egiziano ha una composizione analoga al pigmento contenuto nella cuprorivaite, minerale, tuttavia, scarsamente diffuso. Si tratta di un doppio silicato di rame e calcio avente formula CaO·CuO·4 SiO2 ottenuto dal riscaldamento della silice, malachite contenente idrossido carbonato di rame (II) Cu2(CO3)(OH)2, carbonato di calcio e carbonato di sodio riscaldando la miscela in una fornace in condizioni riduttive.
Nella sua struttura cristallina sono presenti ioni gli ioni positivi calcio e rame legati a ioni negativi di silicato SiO42- aventi geometria tetraedrica.
Il blu egiziano è stato utilizzato nella pittura di affreschi, tombe, statue e molti oggetti delle antiche civiltà ma anche come uno smalto conosciuto come faience egiziana. Dopo il crollo dell’Impero Romano l’uso del blu egiziano diminuì fino a scomparire quasi del tutto, ma, dopo tanti secoli d’ombra, esso è riemerso con potenzialità che i suoi inventori non avrebbero mai potuto immaginare.
Per gli storici dell’arte lo studio dei pigmenti usati dalle antiche civiltà costituisce un utile strumento per l’indicazione dell’età di un’opera, della sua autenticità e delle tecniche pittoriche oltre che per stabilire i trattamenti necessari per il restauro e la conservazione di un’opera.
Da tali ricerche effettuate sul blu egiziano è stato scoperto che esso si rompe in sottilissimi nanofogli che producono radiazioni I.R.. Queste ultime sono invisibili all’occhio umano ma l’emissione può essere registrata con una fotocamera digitale con filtri modificati che permettono di rilevare tale tipo di radiazione. Questa scoperta va al di là dell’interesse storico e culturale e apre la strada a nuovi tipi di nanomateriali utilizzabili per sistemi a fibre ottiche, immagini biomediche basate sul vicino I.R., per formulazioni di inchiostri di sicurezza e per rivelare impronte digitali latenti su superfici altamente riflettenti.
Il futuro del blu egiziano potrebbe quindi essere ancora brillante per lo sviluppo della tecnologia e per il progresso dell’umanità.